venerdì, Aprile 19, 2024

Cinema, cinquant’anni fa usciva “Il mucchio selvaggio”, il capolavoro che cambiò per sempre il western

“Perché ti porti dietro un rudere come me?

Abbiamo cominciato insieme e insieme finiremo.

Anch’io la penso così, e così concepisco l’amicizia”

(Dialogo da “Il Mucchio Selvaggio”)

di Alessandro Ceccarelli

Cinquant’anni fa faceva irruzione nelle sale cinematografiche di tutto il mondo “Il mucchio selvaggio” del regista statunitense Sam Peckinpah. Con questo film, considerato uno dei capolavori del western di tutti i tempi, il cineasta ‘ribelle’ per eccellenza diede una sterzata, un poderoso sussulto agli schemi classici del genere americano per autonomasia. In Europa l’italiano Sergio Leone con “Per un pugno di dollari” (1964) aveva già in parte rivisitato e dissacrato le opere dei maestri John Ford e Howard Hawks, mettendo in evidenza la violenza e il sadismo in una sorta di iperbole grottesca. Il cinema di Sam Peckinpah andò oltre. Il regista californiano fece un’abilissima miscela tra la classicità dei maestri e l’innovazione tecnico-visiva nel mostrare le scene più violente con l’espediente dello “slow motion” (cosa che sarà ripresa da molti colleghi come Milus, Scorsese, Carpenter e Spike Lee). “Il mucchio selvaggio” fu il primo western revisionista e crepuscolare che anticipò e surclassò film come “Soldato blu” e “Il Piccolo grande uomo”. La grandezza e l’originalità della pellicola di Peckinpah fu che non volle ribaltare il luogo comune “indiani buoni, bianchi cattivi” ma scavò nel profondo nell’animo umano analizzando e rappresentando la violenza brutale e feroce senza indicare chi fossero i buoni e i cattivi. Nella pellicola di Peckinpah trionfano i temi dell’amicizia virile, un evidente senso di nichilismo che porta tutti i protagonisti alla consapevolezza di non avere scampo nel celebre e terrificante finale rappresentato dal massacro in una sorta di catarsi totale. I volti scolpiti nella roccia di William Holden, Ernest Borgnine, Warren Oates, Ben Johnson e Emiliano Fernandez descrivono un mondo brutale dominato da regole primordiali in cui la morte appare inevitabile. Anche se ambientato nei primi del Novecento, “Il mucchio selvaggio” è uno dei pochi film in cui l’epopea del western e della Frontiera sono raccontati e descritti senza retorica, senza enfasi, senza il mito dell’eroe solitario che salva la comunità dai “banditi”. Nell’universo di Peckinpah nessuno spera di salvarsi. Tutti i protagonisti sanno che non potranno evitare il tragico destino che li attende nell’apoteosi finale.

L’artigiano ribelle di Hollywood

L’artefice di questo capolavoro è morto 35 anni fa, quasi in silenzio, eppure i suoi film sono spesso riproposti in televisione e conservano un enorme fascino, una grande nostalgia e uno spirito innovativo senza precedenti nella storia del cinema. E’ stato il protagonista del rinnovamento del cinema americano negli anni ’60 e in particolare ha dato un contributo fondamentale alla rilettura storica, critica e realistica dell’epopea del western. Dopo John Ford e Howard Hawks, si può affermare che nessun altro regista abbia compiuto una rilettura così profonda smitizzando l’essenza storica degli Stati Uniti. Stiamo parlando di Sam Peckinpah (1925-1984), il ribelle per eccellenza di Hollywood, una sorta di anarchico di destra che nel corso della sua straordinaria carriera ha diretto alcuni capolavori come “Sfida nell’alta sierra” (1961), “Sierra Charriba” (1965), “Il mucchio selvaggio” (1969), “La ballata di Cable Hogue” (1970), “Cane di Paglia” (1971) e “Pat Garrett & Billy The Kid” (1973. La sua opera ha profondamente influenzato generazioni di registi come Martin Scorsese, Walter Hill, John Milius, Kathryn Bigelow, Quentin Tarantino e John Woo, solo per citare i più importanti e celebri. Il cinema di Peckinpah, crepuscolare, poetico, lirico e straordinariamente violento è stato sempre una sorta di omaggio alle figure dei perdenti, di quei personaggi che già in partenza sanno di essere sconfitti ma che si battono come leoni sino alla fine, sino all’ultima pallottola. Dal punto di vista estetico la lezione di Peckinpah ha avuto un impatto enorme sul cinema statunitense: l’incredibile perfezione del montaggio, la maniacale cura di ogni immagine e singolo fotogramma; l’estremo realismo delle scene di violenza con i dettagli delle pallottole che dilaniano le carni, hanno cambiato per sempre il modo di fare cinema.

Redazione
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