sabato, Aprile 27, 2024

Spettacoli: Claudia Catani, “la voce” del cinema italiano

Intervista esclusiva ad una delle più importanti doppiatrici italiane (‘offre’ la sua voce per la dive Charlize Theron, Angelina Jolie, Marion Cotillard,  Cameron Diaz, Diane Kruger, Naomi Watts, Gwineth Paltrow, Rachel Weisz, Robin Wright, Meg Ryan e Hillary Swank, solo per citare le più famose)

di Alessandro Ceccarelli
Ascoltare la sua voce al telefono è un’esperienza quasi mistica. Parla nei giusti tempi e con le giuste pause. Il tono è da mezzo soprano e la sua voce è decisamente musicale, suadente. Ti cattura completamente; conversando con lei è impossibile distrarsi. E’ come ascoltare l’Adagio di Albinoni o il pianoforte struggente di Eric Satie. Stiamo parlando di Claudia T. Catani,  da diversi decenni una delle più importanti, autorevoli ed eclettiche doppiatrici del cinema e della televisione. Abbiamo discusso con lei del suo lavoro, del ruolo del doppiaggio e in genere del mestiere della recitazione.
In un mondo sempre più globalizzato in cui è ormai necessario conoscere sempre più lingue ha senso il doppiaggio dei film stranieri?
E’ vero. In fondo non ne ha…Ha senso se si riesce a consegnare un prodotto davvero affine, il più possibile conforme all’originale, nel rispetto della matrice culturale di provenienza. Nella conoscenza approfondita, e oggi più che mai seguita in primis dagli stessi registi stranieri, o dai loro inviati, del significato artistico. Ha senso se si è attori completi al servizio della performance di altri artisti. E l’evoluzione virtuosistica delle performance interpretative nel ‘mondo globale’ è esponenziale. Il doppio-attore deve essere sempre più preparato. Continuare a studiare, allenare la voce nel canto e nella dizione, usufruire della bioenergetica, calcare le scene, partecipare a corsi di formazione e laboratori esperienziali, vivere consapevolmente il proprio corpo in modo da abitarlo sufficientemente perché possa essere al servizio di traduzione del sentire d’altri, in condizioni meno propizie, ma piuttosto al riparo dal rischio di fallire interamente. Un attore deve essere sempre tale, al buio in una sala di registrazione, alla radio, a teatro… Deve conoscersi, conoscere l’umanità, maturare la propria capacità espressiva. Il doppio-attore non ci mette la faccia. Ha meno da perdere. Ci metta almeno tanta consapevolezza. Lo dico spesso si miei allievi, in dialetto romanesco, da me importato, per provocare : “ Ahò, ‘quello’ è Matt Damon..- oppure ‘quella’ è Juliette Binoche! Non stiamo registrando una farsa per un tutorial su YouTube!”
Certo, tra il doppiaggio e la pantomima, a volte…
Il nemico è sempre l’ignoranza.
Secondo te perchè in Italia si conserva ancora la discutibile abitudine di doppiare il film? Forse per via che gli italiani hanno difficoltà con le lingue straniere?
In Italia sono principalmente i più giovani – in senso meramente anagrafico, dal momento che la genetica da qualche decade ci accorda più di una giovinezza – a conoscere seriamente le lingue. Soprattutto l’inglese. E la maggior parte del cinema d’oltreoceano e d’oltralpe che viene distribuito nelle sale cinematografiche italiane – e nei salotti virtuali della fruizione compulsiva online – è soprattutto di matrice anglosassone.
Paradossale il fatto che in un Paese per lungo tempo filo-americano, dove si gradisce, o si subisce, la profusione di blockbusters, si riscontri ancora una fisiologica ritrosia a masticare bene la lingua inglese. Le lingue straniere in senso più ampio, oserei dire. Salvo debite eccezioni. La radice latina poco affine? La politica di protezione dei confini nazionali dell’era Mussolini?
C’è chi dice ‘grazie – anche – al doppiaggio’ che ha contribuito alla conoscenza e divulgazione della lingua italiana nei nostri differenti entroterra, che in tempi più o meno recenti erano ancora in totale balia dell’analfabetismo…
Mah. Meriti e demeriti. Perdemmo le contaminazioni musicali…e molto altro nutrimento culturale. Mai perdere di vista, ad ogni modo, che l’attività del doppiaggio è un servizio di traduzione, un adattamento artigianale – ma a volte artistico – di opere originali.
Artistico quando, soprattutto in Italia, la preparazione e la competenza di attori che ‘prestano la voce ‘ in questo gioco biunivoco, superano la semplice vocalità. Arrivano dal corpo supplementare al cuore di chi ascolta.  Io sono per la possibilità di scelta, come per i dvd, o le piattaforme online, di lasciare al pubblico l’opportunità di un ascolto duplice.
Chi ci ama ci segua. Ma in un futuro molto prossimo, assisteremo alla naturale propensione a diffondere sempre più prodotti in lingua originale e, spero, quelli che necessariamente si riterrà e verrà richiesto dai committenti – questione di indotto – ancora di doppiare, spero siano più che mai portatori di un valore aggiunto, una traduzione nobile dei sentimenti.
Hai iniziato la professione di doppiatrice sin da bambina. Conservi qualche ricordo nel film “Il Padrino” di Coppola in cui davi la voce al nipote di Marlon Brando?
Ricordo d’aver soffiato il ruolo a mio fratello, che da numerosi anni si occupa di altro, nel campo della medicina olistica. Io parlottavo con mia nonna in fondo alla grande sala, nel vecchio storico stabilimento della Fono Roma, mentre mio fratello si era intimidito. Così presi il suo posto. Ricordo il direttore Carlo Romano – la voce italiana di Jerry Lewis – un uomo affettuoso e autoritario al contempo. Mi dava colpetti sulla schiena per darmi il tempo della battuta. Un po’ lo temevo. Ma una volta gli chiesi perché fosse ciccione. Mia nonna mi fulminò. Un attore di carattere. Il doppiaggio si è realizzato inizialmente grazie ad attori di cinema e teatro. Alberto Sordi era un rumorista e poi diventò la voce di Ollio. La signora Lydia Simoneschi voce di Ingrid Bergman e Bettie Davis; Rosa Calavetta voce di Marilyn Monroe, Panicali di John Wayne. E poi più recentemente Stoppa, Proietti, Giancarlo Giannini, Gianni Musy tra i numerosi altri… Ho iniziato così, in un’epoca in cui nessuno in Italia era minimamente in grado di guardare film in lingua originale. Le ‘voci’ ci hanno fatto sognare fin qui. Poi il mondo cambia, e quei suoni antichi possono oggi stridere un po’ ai nostri orecchi. Gli interpreti anglo-americani, poi, a quell’ epoca erano già moderni.
Grande scuola.
Nel corso della tua prestigiosa carriera hai doppiato le più importanti e talentuose attrici internazionali (Charlize Theron, Marion Cotillard, Angelina Jolie, Diane Kruger, Naomi Watts, Rachel Weisz e Gwyneth Paltrow, solo per citare le più famose). Quali di queste apprezzi e stimi di più e quale tra loro è stata più difficile doppiare?
Indubbiamente, pur amando Marion Cotillard per la sua origine europea e la sua cifra interpretativa vincolata al lignaggio delle grandi attrici francesi, Signoret, Huppert, Binoche…stimo enormemente la signora Theron.  Inizialmente fotomodella, nata e cresciuta in Sud Africa, padre molesto, vita difficile… al suo esordio nel film “L’avvocato del Diavolo” accanto ad Al Pacino e Keanu Reeves, ha subito dimostrato talento da vendere.
Un’attrice sensuale, iper femminile, morbida, plastica. Emotivamente vibrante e capace di virtuosismi stilistici ma anche di sobria asciuttezza. Non è solo bella. Nell’ultimo film in cui l’ho doppiata, “Tully”, è stata in grado di rinunciare a bellezza e ammiccante sentimentalismo, offrendo una incantevole interpretazione.
La leggenda narra che non fu affatto facile per lei vincere il provino per il suo ruolo d’esordio; si presentò più volte sotto falso nome e sembianze, pur di farcela!
Difficile la signora Kruger, la sua cadenza germanica pesa a volte sulla scioltezza della recitazione in lingua inglese: è più rigida all’ascolto e quindi può offrire meno possibilità di scivolare sulle parole e di tradurre le intenzioni più sottili.
Adorate le non citate Gillian Anderson, diva del teatro londinese, e Patricia Arquette, entrambi attrici principalmente impegnate in produzioni seriali. Anderson una maschera raffinata e botticelliana. Attrice sofisticata, tecnica superlativa, magnetica e completamente introspettiva. Arquette, libera da qualsiasi ambizione estetica, un ritratto di Fernando Botero; sensualissima e spesso decomposta, trascurata…punta ad esprimersi nei ruoli che le affidano con misurata crudezza, al limite estremo di una ricerca del ‘brutto’.
Molto stimolante per me, cercare di abitare queste figure magistrali, risuonando del loro impianto recitativo. Partecipare in simultanea alla loro fisicità, assimilarne la costruzione di densissimi e mai scontati sottotesti.
Tra i numerosi riconoscimenti che hai vinto spiccano il Premio “Ferruccio Amendola” nel 2010 il “Premio Leggio d’Oro” nel 2014 per aver prestato la tua voce alla star Angelina Jolie. Che ricordo hai del ‘padre’ del doppiaggio italiano e che opinione hai dell’attrice e regista statunitense?
Ferruccio Amendola ha segnato l’avvio del doppiaggio moderno. Uno spartiacque tra le sonorità melodiche e vagamente auto compiacenti del cinema fine anni cinquanta e l’avvento delle interpretazioni più naturalistiche nella pellicola a colori.
Amendola è il capostipite di un suono più ‘buttato via’, più ‘sporco’, non impostato o sofisticato.  Con lui è cambiato anche il rapporto voce-microfono.
Il mic è ravvicinato al leggio dove posano gli attori in piedi; si può giocare di più con le sfumature di una voce meno proiettata, si cominciano ad usare i ‘soffiati’ e una linearità di lettura più introspettiva.
Voce di diversi grandi attori della stessa scuola, ha quasi rischiato di recitare rispondendo a se stesso. Persona schiva, semplice, ma di grande umanità.
Per quanto riguarda Angelina Jolie, proprio a breve inizierà il doppiaggio di Maleficent 2. Penso che sia una donna sensibile e dotata. Forse troppo bella, perché il talento abbia la meglio sul magnetismo della sua fisicità. In Maleficent, in cui ha recitato anche la figlia nel ruolo della piccola Aurora, ha costruito un carattere tragico e archetipico. Seduttiva e commovente. Carisma e notevole tecnica al contempo. A me è sembrato un atto d’amore profondamente sentito per la sua figlioletta. C’è una profonda tenerezza in quella donna piena di contraddizioni, filantropa, ambasciatrice umanitaria, fragile e instabile, ma ostinata e sempre in evoluzione. Non conosco le sue opere come regista, ma una le è valsa un paio di candidature agli Oscar.
Oltre ad essere doppiatrice sei anche attrice (“Il resto con i miei occhi” del regista Massimiliano Amato. Tra doppiare e recitare quale preferisci come sfida artistica?
Recitare. Con tutto il corpo, la mia storia personale, il sogno, essere l’altro, altro da sé. Dare un senso a quello che portiamo dentro e che resterà dentro – un vissuto personale e basta – se non trova un canale aperto e ricettivo per farsi espressione della collettività.  Mi piace emozionarmi, dover scegliere una strada nuova che non è stata già percorsa.  Osare la semplicità di esserci per aprire le porte segrete interiori. E scoprire accessi al sentire, all’immaginario, al gioco, al trauma.
Preferisco ricordare che non ‘sono’, se non al servizio della creatività.
In tutti gli aspetti della vita. Mi piace il silenzio da cui sgorga una parola vera. Un gesto essenziale. Mi piacciono le pause. Imprendere il nulla. Lasciare al vuoto della presenza l’emersione dell’atto puro. Nessun compiacimento. Ora la mia sfida artistica più grande è questa: creare una ‘compagnia instabile’, pochi attori sul palco, sobrietà della messinscena e riscoprire alla luce di nuove consapevolezze somatiche e spirituali la lezione del teatro dell’assurdo, arrivando a Pinter.  Forse, prima, un passaggio per Strindberg…
Sei una donna poliedrica essendo posturologa olistica, danza contemporanea e orientale. Ci parli di queste due interessanti attività?
Lo studio della posturologia e la pratica dell’analisi bioenergetica mi hanno consentito di acquisire una maggiore consapevolezza del mio corpo e pure di quello degli altri, soprattutto dal punto di vista energetico. Molto utile per la ‘guarigione’ personale o la costruzione di un personaggio, nonché per l’insegnamento della recitazione.
Reich le chiamava le corazze emotive. Lowen ne elaborò la liberazione attraverso la conoscenza e l’accettazione del ‘piacere’ nel senso più ampio del termine…
Non solo ereditiamo geneticamente attitudini posturali in base alla nostra conformazione fisica, le improntiamo sulla base di blocchi energetici conseguenti a stress emozionali, paure irrisolte, strategie difensive o di attacco, e traumi. La rigidità mentale può condizionare il nostro corpo e movimento. A questo si aggiunge il tipo di educazione ricevuta, lo spazio di azione che ci è stato consentito, la percezione e traduzione di eventi passati elaborati in modalità vittimistica o invece persecutoria se non di soccorso compulsivo…
E molto altro. Il corpo segue la forma della psiche, la incarna verosimilmente.
Soprattutto un attore deve sapere questo. Lo stile della danza contemporanea è linguaggio poetico, per me. E’ vicina al mio amore per le parole. E’ metafora, sintesi ermetica, destrutturazione, canto lirico, fluidità e intermittenze, è implicita e contraddittoria per poi esplodere nell’inusuale… La danza orientale invece mi riporta in parte nella terra dove sono nata, l’antica Persia…benché abbia pochi tratti in comune con le danze mistiche delle donne persiane. Ma una forma di misticismo la conserva tuttora anch’essa. Un lungo filo rosso mi riporta ai tempi del neolitico, alle dee della fertilità, a quei meravigliosi ventri e fianchi delle nostre antenate vibranti. Che si scuotevano e scuotevano cielo e terra per la continuazione della vita. E’ la danza delle sorelle, non è nata per intrattenere gli uomini, ma per raccontarsi e celebrare in intimità tra noi donne di amori, amicizia, riti di passaggio, gioie e dolori, nascita e morte, ciclicità dell’esistenza… E’, poi, una panacea per la buona salute e l’armonia strutturale del nostro corpo. Si tratta di movimenti fisiologici e non lineari…rispettano la curvilinea natura del nostro corpo…e dei corpi celesti…
Infine, sei nata a Teheran. Cosa pensi di aver conservato dell’immensa cultura di quel Paese?
Benché figlia di italiani, porto dentro il profumo delle spezie, del the, gli arabeschi e i fiori dei tessuti e degli intarsi. Lo zucchero aromatico.
L’amore per le pietanze con il riso al lato. Porto dentro il tempo dell’ultimo scià di Persia e la ricchezza del continuum temporale col passato. La musica percussiva suddivisa in misure per noi inconcepibili. Porto con me il desiderio irrefrenabile di sdraiarmi su un tappeto e viverci..
Sì, di vivere sempre a contatto con la terra, il basso, più vicina al centro pulsante.
Porto dentro un femminile inesplorato. Custodito, segreto.
Le donne di una volta, e quelle del futuro! L’odore dell’ambra e dei muschi. Una certa tonalità di azzurro. Rumi poeta e Maestro illuminato. Artista, uomo di musica e danze.
Porto dentro, e a volte mi basta solo ricordarlo, il sema dei Sufi. La trance invocativa della traiettoria di orbite universali in noi rispecchiate. Connaturate.  ‘Come è sopra così è sotto”. Scriveva in altri tempi e confini Ermete Trismegisto.
Redazione
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