venerdì, Aprile 19, 2024

«Marco senza ritardo nei soccorsi non sarebbe morto»

 

Depositate le motivazioni della sentenza che rimanda alla Corte d’Appello il processo sulla morte del giovane

«Marco senza ritardo nei soccorsi non sarebbe morto»

Omicidio Vannini. Per i giudici della Cassazione tutti gli imputati

«incisero sull’aggravamento delle condizioni del giovane»

 

Marco Vannini morì per le «lesioni causate dal colpo di pistola» e se fosse stato soccorso in tempo non sarebbe morto. È quanto scrivono i giudici della prima sezione penale della Cassazione nelle motivazioni della sentenza con cui un mese fa hanno disposto un processo d’appello-bis per Antonio Ciontoli e i suoi familiari, annullando la sentenza di secondo grado, che aveva ridotto la condanna a Ciontoli da 14 anni a 5 di reclusione riqualificando il reato da omicidio volontario con dolo eventuale a omicidio colposo. Per i giudici di piazza Cavour «le false informazioni furono un modo per restare inerti e per non dare corso a una tempestiva richiesta dei soccorsi che, invece, avrebbero potuto efficacemente intervenire a tutela e protezione del bene della vita di Marco Vannini». Tutti gli imputati, Federico e Martina Ciontoli, Maria Pezzillo e Antonio Ciontoli hanno avuto dunque «una condotta omissiva» subito dopo lo sparo di Marco, «ascrivibile soltanto ad Antonio Ciontoli che, dopo il ferimento colposo, rimane inerte, quindi disse il falso ostacolando i soccorsi». Qualora invece i soccorsi fossero stati «tempestivamente attivati», il giovane di appena 20 anni sarebbe ancora vivo. Per Antonio Ciontoli, nelle motivazioni della sentenza la Cassazione, evidenzia come non si possa dire che Ciontoli abbia tentato di nascondere il colpo di pistola, non dicendo dunque la verità ai soccorritori, per paura di perdere il posto di lavoro perché «sia che Marco Vannini sopravvivesse sia che morisse, quel fatto non poteva essere posto nel nulla, non poteva essere occultato». Anzi, «se Marco Vannini non fosse morto avrebbe potuto raccontare quel che era accaduto, ed è dunque assai più logico ritenere che la sua morte ben potesse essere considerata evento non già che avrebbe svelato in maggior misura le responsabilità di Antonio Ciontoli, ma che, all’opposto, avrebbe reso più disagevole l’accertamento di dette responsabilità, proprio perché si sarebbe sostanziata nella soppressione di una importante fonte di prova». Ed ora passiamo alla posizione dei familiari di Ciontoli. Riflettori puntati anche sulle responsabilità degli altri componenti della famiglia. I giudici di piazza Cavour hanno infatti posto i riflettori sulle macchie di sangue rinvenute non solo sugli abiti indossati da Antonio Ciontoli, ma anche su quelli di Martina con Federico che effettuò «alla presenza della madre Maria Pezzillo, un esame esterno del corpo di Marco Vannini, per individuare il foro di uscita del proiettile». E proprio alla luce di questa considerazione, per la Cassazione, anche la sentenza di primo grado mostra delle “pecche”. In sostanza, partendo dall’assunto che tutti all’interno dell’abitazione in via Alcide de Gasperi a Ladispoli avrebbero potuto contribuire ad allertare tempestivamente i soccorsi, perché consapevoli di quanto accaduto, la Corte d’Assise d’Appello avrebbe dovuto meglio approfondire la vicenda in quanto la sentenza di primo grado apriva «un più ampio spettro di esame della vicenda, operando con la stessa efficacia anche in una direzione opposta a quella privilegiata, con la segnalazione di un possibile errore valutativo non già nel disconoscimento della colpa per Antonio Ciontoli ma nell’esclusione del dolo in capo agli altri imputati». Quando Federico chiama per la prima volta i soccorsi, per la Cassazione, sia lui che la madre (intervenuta successivamente al telefono) «avevano appreso della versione del colpo a salve e, vero o falsa che fosse». E sempre Federico, all’arrivo dell’infermiera del 118, nonostante fosse vicino al padre che in quel momento stava raccontando di uno spavento, «scelse di tacere, di non correggere l’informazione; non parlò della ferita, del sangue».  Anche la giovane fidanzata di Marco Vannini, insieme agli altri componenti della famiglia, per la Cassazione, era consapevole di quanto accaduto. «Presente o meno che fu al momento dello sparo – si legge nelle motivazioni – è certo che accorse subito sul luogo», quindi anche lei sapeva come i suoi familiari che cosa era accaduto. Nonostante questo, quando l’infermiera Bianchi chiesa che cosa fosse successo, lei rispose che «non sapeva nulla, “lei non c’era”». Non da meno il comportamento della moglie di Antonio Ciontoli. Quando l’infermiera Bianchi arrivò, sottolinea la Cassazione, proprio Maria Pezzillo era vicina a Marco e gli sorreggeva le gambe, senza però spiegare all’infermiera che cosa fosse accaduto, tanto che «lei impiegò circa 15-20 minuti a cercare di capire cosa fosse successo», perché nessuno le mostrò la ferita d’arma da fuoco «coperta dagli abiti puliti con cui avevano provveduto a vestire Marco Vannini». Tanto meno le fu riferito del «colpo d’aria o a salve» o che avevano provato a individuare il foro d’uscita del proiettile. Tutte informazioni, queste, che per la Cassazione, «sarebbero state preziose» per permettere all’operatrice del 118 di attivare i soccorsi adeguati così da salvare la vita del ragazzo.

Redazione
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