venerdì, Marzo 29, 2024

Roma, raid al “Roxy bar”: per la Cassazione “Ci fu metodo mafioso e cieca violenza”

La “pretesa di essere serviti prima degli altri avventori”, “la cieca, gratuita, selvaggia violenza con la quale si era inteso punire la donna (presa brutalmente a cinghiate, calci e schiaffeggiata) che aveva osato contraddirli, così come “l’affermazione che in zona ‘comannavano’ loro” sono solo alcune delle motivazioni con cui i giudici della Seconda sezione penale della Cassazione hanno confermato lo scorso 2 luglio le condanne per Alfredo Di Silvio (4 anni e 10 mesi) e per il nonno Enrico (3 anni e 2 mesi), per il raid e l’aggressione al Roxy bar avvenuta l’1 aprile 2018. I giudici sottolineano anche “il carattere di deviante ‘esemplarità’ delle reazioni – assolutamente spropositate – all’indirizzo dei malcapitati che in un modo o nell’altro si erano permessi di fronteggiarli”. A conferma dell’aggravante del metodo mafioso, scrivono i giudici di piazza Cavour, c’è poi “il timore palesato dagli altri sei o sette avventori presenti, che si erano ben guardati dal prestare aiuto alla donna che veniva ripetutamente frustata e picchiata, e che trova razionale giustificazione soltanto nel timore di successive ritorsioni”. Da ultimo, ma non meno importante, c’è il ruolo del ‘nonno’ Enrico, “decano della famiglia”, che incontrò successivamente i coniugi Roman, i quali avevano subito denunciato l’aggressione subita alle forze dell’ordine: l’uomo voleva “inculcare” alle due vittime “la convinzione della necessità, per ogni abitante della zona, di obbedire alle richieste sue e della sua famiglia”. I giudici sottolineano la frase detta dall’anziano Di Silvio, “allora volete la guerra” parlando di “espressione intimidatoria profferita dall’imputato, a minacciare conseguenze ancor più estreme, per ingenerare uno stato di assoggettamento ed omertà, per il fastidio scaturito dalla pretesa di non piegarsi ai suoi voleri”: “una guerra che egli aveva intenzione di scatenare, avendo soldati pronti a combatterla, o quanto meno di far credere di essere in grado di scatenare, il che – concludono i giudici della Cassazione – ai fini della configurazione del cosiddetto metodo mafioso, è lo stesso”.
Redazione
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