giovedì, Marzo 28, 2024

“Carta vetrata”/ Senza pace (da “Incompiute”)

Cari lettori, iniziamo da oggi la pubblicazione dei racconti della brillante scrittrice romana Stefania Origlia che qualche settimana fa abbiamo avuto l’onore di poter intervistare. Questa iniziativa, una sorta di ‘spazio letterario’, vuole dare spazio alla creatività e alle storie di questa valente esponente della cultura romana. Ogni quindici del mese pubblicheremo un suo racconto all’interno della rubrica “Carta vetrata”. Buona lettura.

di Stefania Origlia

Senza pace (da “Incompiute”)

Quando la notte lascia spazio al giorno nuovo che inizia, è come se si interrompesse un discorso tra amanti. Lo spazio è quello in cui si raccolgono gli abiti da terra, ci si veste di fretta, si guarda l’orologio e si cerca di camuffare quel senso di impalpabile felicità rubata, quella pelle distesa, gli occhi liquidi e la voce roca perchè gli amanti parlano poco e se lo fanno è per dire cose che restano in gola.

Così era per noi due. Senza essere amanti. Si lavorava fino a tardi, si aspettava di salutare gli altri che avevano comandamenti da rispettare e se ne andavano puntuali alle 19, e si restava lì in ufficio a ciondolare, a cercare una scusa da dire all’altro, per giustificare il fatto che nonostante l’orario, non c’era nessuna intenzione di uscire da lì. Ogni volta che ne avevamo voglia, mettevamo in scena il nostro elaborato repertorio teatrale. Così iniziarono a prendere corpo le nostre notti. Preparare il caffè era la cosa più scabrosa che facevamo insieme. Ci passavamo uno sguardo, come fanno due atleti esperti con la staffetta, durante la corsa. Dove arrivava il suo, c’erano i miei occhi a prenderlo. E quella fuga di sguardi restava tra noi. Poi lui sceglieva la miscela, armeggiava con l’acqua, poggiava le tovagliette plastificate, prendeva le nostre tazze e poco prima di questo, la solita domanda: “Preferisci del the?” e la solita identica risposta: “Lo sai che lo odio il the.”

E il sorriso si distendeva lento sui suoi denti. Voleva solo sentirmi parlare. Solo sentire la mia voce nel silenzio notturno di quell’ufficio abbandonato da tutti ma abitato da noi.

Si lavorava davvero, comunque. Onoravamo sempre le nostre scuse. Si ritornava su certi punti, si discuteva anche, si restava in silenzio per cercare una soluzione, si rideva sguaiatamente, ripensando a qualche frase detta da un collega durante una riunione della mattina. Insomma, eravamo assolutamente concentrati e produttivi. Ma quando ci trovavamo uno davanti all’altro con i laptop aperti a fare da divisorio e un’altra tazzina di caffè davanti allo schermo per non cedere definitivamente alla stanchezza della giornata, lui alzava lo sguardo e, attraverso le lenti degli occhiali, lo poggiava su di me. Ancora una volta io me lo prendevo e lo tenevo nel mio. Cercavo di resistere il più possibile, respirando piano, perchè in quel momento non poteva esserci altro che quello, non doveva aggiungersi nessun altro elemento. La sua insistenza era intrusiva ma silenziosa. Quanto di più potente abbia mai provato. Senza avermi mai toccato, lo sentivo ovunque. Senza parlare sapeva dire cose che mi sconquassavano le tempie, vibravano nel cranio.

“Dobbiamo andare” era la frase di congedo obbligatoria e arrivava in quel momento in cui, come due amanti, si scioglieva l’abbraccio, lei che doveva andare in bagno e lui che si accendeva la sigaretta. Poggiava le tazze al loro posto, vicine a scolare l’acqua dopo averle lavate, guardava l’orologio. Io buttavo le penne in borsa e mi passavo il burro di cacao sulle labbra, come quando vuoi ritoccare il trucco, perchè non puoi uscire da una stanza d’albergo in disordine e spettinata, come se non sapessero le ragazze della reception cosa vanno a fare un uomo ed una donna in albergo, alle 17 di un martedì. Assurdi nella nostra assenza di fisicità, l’unica cosa davvero nostra.

Certo sapevo delle sue serate brillanti, lo capivo immediatamente, fin dalla mattina. Arrivava affannato e sempre piuttosto elegante, mi parlava poco durante il giorno ma passava puntualmente a salutarmi prima di uscire dall’ufficio con una mezz’ora di anticipo.

“Non fare tardi, stasera” mi diceva sottovoce e non era una frase retorica, era un ordine, un messaggio che ero assolutamente tenuta a comprendere e a considerare.

In quel luogo asettico, in mezzo a quelle scrivanie moderne di legno massello con sopra appese riproduzioni dei dipinti meno noti di Chagall, tra quelle poltrone in ecopelle e gli ascensori tirati a lucido, con i numeri di ogni piano lampeggianti di verde fluorescente ogni qualvolta si pigiava il tasto prescelto, in quei corridoi stretti ed eleganti, con la passamaneria di seta sul bordo delle tende pesanti a oscurare piccole finestre che guardavano il parco di fronte, lì c’era la nostra storia, quello era il luogo deputato a rappresentare noi stessi.

Quando lo sapevo fuori con una donna, avevo addosso una sensazione strana, un miscuglio di apprensione e vertigine, come se dovesse accadere qualcosa all’improvviso che mi avrebbe trovata impreparata. Mi bevevo una birra a gambe incrociate sul letto, fino a quando il sonno finalmente mi toglieva di torno quella serata inutile, quel desiderio sfiancante della sua presenza e della luce riflessa sulle sue lenti mentre guardava me. Anche solo quella luce, pensavo, anche solo un riflesso di quelle lenti, ma per sempre. All’indomani era sempre lento a carburare, i colleghi che lo sfottevano, le donne che lo circondavano parlando a voce alta, ridacchiando come ragazzine del liceo, i suoi occhi liquidi, liquidissimi, stanchi. Qualche volta mi facevo venire a prendere da un amico che lui non conosceva, solo per intercettare un suo eventuale sguardo indagatorio ma il più delle volte non mi guardava nemmeno e solo una volta si affacciò alla porta della mia stanza, bussando appena, e annunciandomi il nome dell’uomo che era venuto a prendermi. Io non gli davo ordini prima di andare via e non passavo mai a salutarlo. Solo un paio di volte l’ho sorpreso mentre mi osservava andare via, da una delle finestre del corridoio ma si è trattato certamente di una semplice casualità. Tutte queste trovate inutili e banali, solo per far trascorrere il tempo, farlo scivolare veloce al giorno della nostra seduta notturna senza sesso e senza parole. Nessuno dei due ci avrebbe mai rinunciato e per me quella certezza era dichiarazione di intenti. Meglio del sesso era proprio quello stupore nel ritrovarci da soli, che ci assediava tutte le volte. Felicità pura, privata e mai manifesta. Potevamo andare a casa sua, potevamo andare a casa mia o strappare le tende appendendoci lì, sotto lo sguardo di Chagall. Niente di tutto questo. Lui mi guardava ed io lo lasciavo fare e quanto più a lungo si protraeva quell’esercizio d’amore, tanta più resistenza mi veniva richiesta. Spostava lo sguardo sulla mia bocca, sui denti, sulle mani, per tornare di nuovo a infilarsi come un ago sottopelle, dolorosamente dritto attraverso le ciglia, a conficcarsi in fondo agli occhi. La bocca asciutta come dopo aver gridato aiuto per ore, il corpo molle, arreso. “Dobbiamo andare, ora”. Quella volta fui io a dirlo, anticipandolo. Si alzò lentamente, come fanno i vecchi con le ginocchia malconce. Non voleva andare, così dicevano i suoi occhi, ma avevo bisogno di punirlo per quello sguardo liquido a cui mi aveva abituata, quello sguardo che non era mai opera mia. Infilai la porta e veloce guadagnai le scale, salutandolo con un cenno della testa.

Lui restò fermo e dritto, come un albero nonostante un forte vento, guardandomi allontanare. Poi chiuse la porta ma restò dentro, stavolta. Il giocattolo si era rotto.

Chiesi il trasferimento nella sede fuori città. Aveva mancato al patto ed io avevo peccato di gelosia. Avevamo sporcato tutto e quella sera fu una lama che entrò nella carne viva a tagliarci in due.

Non mi chiamò mai più. Ed io mai più lo cercai. Il nuovo gioco era riuscire ad essere quello che feriva meglio l’altro. Mi continuò a guardare, ne sono certa, perchè il suo sguardo me lo sentivo addosso ogni volta che mi capitò di spogliarmi davanti ad un uomo, ogni volta che qualcuno iniziava a toccarmi.

Quel corpo esplorato da altri era solo suo. Il suo possesso era determinato dall’assenza di esso, la sua presenza si faceva sempre più inquietante quanto più a lungo si manifestava la sua assenza.

Il tempo per noi acuiva, non spegneva. Parlo così perché sono certa sia stato lo stesso anche per lui. Ogni volta che spingeva il suo corpo dentro qualcuna, avrà pensato alla mia camicetta che amava tanto, al movimento che si vietò di fare verso di me, alle mani a cui ordinò di non muoversi, alla lingua a cui impose di non parlare.

Ci siamo negati quello che si sarebbe consumato in un tempo definito per poter fare l’amore per tutta la vita, instancabilmente. Si portò via le nostre tazze da caffè quando decise di lasciare definitivamente l’azienda. Me lo disse una nostra collega comune. Disse che arrivò una mattina sul presto e andò all’angolo bar della stanza, muovendosi velocemente come se stesse cercando qualcosa. Poi afferrò le due tazze e preparò il caffè e lo versò nella mia. La collega glielo fece notare ma lui neanche si girò a guardarla. Sorseggiò lentamente ogni volta poggiando le labbra su un punto diverso del bordo. Voleva assicurarsi che li stessi sentendo i suoi baci, che mi arrivassero tutti. La camicetta l’ho conservata ma non l’ho mai più indossata. Ognuno si sceglie la propria infelicità o il punto più alto di felicità da tenere a mente e noi con crudeltà facemmo la nostra scelta.

Redazione
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