venerdì, Aprile 26, 2024

“Carta Vetrata”/Fino a quando?

Quello che attrae della tela sono i due corpi nudi dipinti da Schiele con sincera passione. Sono un uomo e una donna, abbracciati, colti nella loro più viva e intensa intimità. La coppia, ritratta dopo l’amplesso, si stringe in un abbraccio che ha in sé una vera e propria potenza emozionale. Il modo in cui l’uomo si avvinghia alla propria amata, mi ha ricordato l’abbraccio impetuoso di un bambino, che si attacca la corpo della madre, perché ha il timore che qualcuno sia pronto a portargliela via.

 

di Stefania Origlia
E’ puntuale. Oggi solo un po’ più spettinato del solito ma non sono una di quelle che può prestare attenzione a queste cose. Né lui è tenuto ad usare particolari accortezze con me. O almeno questo dice il codice di comunicazione imposto, in merito al nostro tipo di relazione. Quindi aspetto che si avvicini. Lo avevo aspettato anche ieri ma deve aver avuto qualche contrattempo inatteso, infatti non era riuscito nemmeno ad avvertirmi. Mi guarda ora e, lo so, non smetterà di farlo per tutto il tempo. E’ l’uomo che mi guarda più di chiunque altro, mi guarda continuamente, mi guarda perchè non può che parlare con gli occhi. Non si concede la possibilità di cadere nella trappola dell’intimità. Si muove sicuro quando è con me, come un marito che torna dal lavoro e si allenta la cravatta. Ma non c’è casa qui, né bambini festanti, né una moglie fresca di messa in piega che lo saluta, lanciando gridolini dalla cucina. Qui ci sono solo io su un letto sfatto per sua precisa richiesta, una bottiglia di vino, calici di vetro cesellato con eleganti incisioni d’argento, regalo di qualche cultore del modernariato, un accendino caduto per terra a qualcuno degli avventori e finito sotto il letto nella foga dell’incontro. Fogli, penne e preservativi sul tavolo sotto la finestra, una scatola di kleenex e il mio profumo sul comodino. La tv accesa ma senza volume, le mie scarpe con i tacchi in vernice nera, lasciate ordinate sotto lo scrittoio, rossetti sparsi vicini al posacenere, prontamente svuotato alla fine di ogni incontro, la borsetta viola con il portafogli dentro e le tende spesse e scure tirate davanti alla finestra, per confondere il giorno con la notte. Qui il buio è d’obbligo. Spegnere, chiudere, dimenticare, lasciarsi andare, sono i verbi sgranati in ogni alcova, uno per ogni piccola perla del Rosario degli amanti, che non prevede redenzione.
Sono raffreddata e ho dovuto rimettere il mascara due volte, prima che arrivasse, perchè ho starnutito in continuazione e gli occhi rossi e lacrimanti hanno tirato giù tutto il trucco. Appena arrivato, stranamente non mi saluta, neppure un cenno. Non che fossimo avvezzi ai convenevoli ma in altre circostanze mi avrebbe chiesto della mia giornata o se avessi mangiato, come un parente che ogni tanto viene a trovarti e si sente in dovere di fare le domande di routine. Oggi, no. Autorizzato com’è a fare quello che vuole, lo fa e basta. La presa stretta è immediata e mi costringe ad assecondarlo, scivolando rapida giù, in ginocchio. Lo guardo negli occhi mentre si sbottona i pantaloni. Sento fin qui l’odore del suo dopobarba, deve essergli scivolato addosso stamattina mentre si vestiva. Mi chiedo se anche la moglie lo guarda spesso dalla mia attuale prospettiva, se deglutisce anche lei quando, accovacciata tra i suoi piedi, se lo ritrova nudo, a due centimetri dalle labbra. Intanto provo a tirare sù l’aria dal naso, ma è chiuso. Fino a quando terrà la mano così serrata? Comunque ho imparato a respirare lo stesso, da quando ho deciso di assecondarlo. Ogni pratica non mi trova più impreparata. Ogni richiesta del tutto lecita. L’abuso è un privilegio che concedo solo a lui ma immagino non si sia mai posto alcuna domanda in merito a ciò. Non mi chiede mai: “Vuoi?” perchè lui conosce già tutte le mie risposte. Non teme di farmi male, è certo del suo autocontrollo. Non improvvisa. Sa quello che vuole e sa come prenderselo. E offre in cambio un corpo inventato per combaciare esattamente con il mio, aderendo come una pellicola. Con estrema naturalezza, con l’automatismo esperto di chi sa cosa deve fare. In questa azione elaborata ci vuole talento per non apparire ridicoli. C’è una meccanica perfetta nella sua modalità, che lo rende diverso. Questo, credo, sia la cosa che lo ha improvvisamente scaraventato fuori dal limbo in cui si muovono, randagi, tutti gli altri. Non riproduce atteggiamenti già noti, non teme confronti e soprattutto sembra non abbia mai bisogno di me. Io di lui, sì. Mi mette addosso quella quiete strana che credo si provi poco prima di morire. Una resa incondizionata, una rassegnazione ineluttabile. Quella quiete che diventa un sibilo, l’ultima possibilità di succhiare un filo di aria e poi niente più. Apnea. E poi, sipario. Allenta, ora. Guarda attentamente il mio volto irrorato di sangue, qualche piccola vena esplosa negli occhi per la pressione. Allenta ancora, ora che mi sente finalmente mansueta.
Sa che ora non posso più in alcun modo oppormi, può approfittarsi di me come desidera e quel gesto è solo per avvertirmi che sta per iniziare a farmela pagare di nuovo. Attraverso la sua sessualità così cupa, mi punisce per avermi conosciuta in un ruolo sbagliato, mi punisce per averlo assediato, sedotto, desiderato e ancor più per farmi scontare la sua cedevolezza, a fronte di tanta strategia. Mi punisce perchè non ha più ricordi se non quelli dove io grido, lo chiamo, lo supplico. Non riesce ad avere altri ricordi. Il figlio piccolo, la moglie più giovane, i cani, i weekend nella casa in montagna, il primo studio che riuscì ad aprire in centro, la ragazza che insidiava all’università, quella volta che riuscì a toccare il culo alla professoressa di matematica, simulando un incidente. La morte del fratello, l’incidente in moto. Niente più. Tutto dimenticato, tutto sepolto dai miei capelli, dai miei seni, dalla mia lingua, dai miei denti bianchi, dalle mie spinte, dal mio odore lieve di pesca matura, dice lui.
Anni fa, ero con un cliente e gli chiesi se aveva qualche gioco preferito, qualche fantasia troppo spinta da chiedere ad una fidanzata e che gli sarebbe piaciuto fare con me. Ricordo che era sulla cinquantina, occhi maliziosi e intelligenti dietro occhialetti da intellettuale, capelli folti, corti e già tutti bianchi e un grosso arnese nei pantaloni. Lui strabuzzò gli occhi e mi disse sprezzante: “Con le donne penso di aver già fatto e chiesto di tutto ma io sono sano, sono un uomo normale, non sono un povero depravato!”
Se mi vedesse ora, conciata così, davanti al mio pervertito, avrebbe pena per me, lo so. O forse resterebbe lì a guardare almeno per un po’, perchè non c’è niente di più invadente di una perversione negata, sommariamente mal riposta, niente di più eccitante che scoprire che improvvisamente, ci è assolutamente necessaria. Ho il naso chiuso, la bocca vergognosamente spalancata. I colpi che mi assesta mi fanno scendere le lacrime, e la saliva mi cola sulle cosce nude. Mi scappa un sorriso, ripensando all’uomo normale, dimenticando però che non è previsto, ora. E quindi, accortosi della mia distrazione, torna a stringere. Lo fa, suppongo, per convincersi che può eliminarmi almeno fisicamente, visto che non c’è possibilità che io esca dalla sua testa. Me l’ha detto lui, una volta soltanto, durante certi nostri bisbigli amorosi. Mi copre gli occhi con la mano quando si avvicina a parlarmi sottovoce all’orecchio, perchè ha vergogna delle parole d’amore che riesce a pronunciare per me, forse solo perchè sono una puttana. “Fai la puttana, non sei una puttana…” mi corresse una volta, ed è stato sigillato così, in quel momento, il nostro vero amore balordo, con quella dichiarazione che mi ha fatto piangere per tutta la notte successiva, mai davanti a lui, però. E poi sono arrivate le torte al pistacchio ai miei compleanni, mazzi di ranuncoli a primavera e maglioni caldi e sottili a Natale che a volte mi chiede di tenere addosso, anche mentre facciamo l’amore. Perchè ogni tanto ci concediamo anche quello, amandoci in purezza, in un oblio di poesia altissima che ci stordisce, ci distoglie dalla realtà.
Non lo facciamo spesso perchè dopo restiamo muti e tristi, perdendo ogni ebbrezza per la trasgressione, e ci ritroviamo completamenti nudi, schiena contro schiena in un oceano devastante di solitudine. Stare insieme in quel modo, sullo stesso piano, allo stesso livello, ambizione di molti, per noi è solo foriero di grande sofferenza. Preferisco che sia più brutale, che si prenda gioco di me e delle mie debolezze, che decida lui per me, cosicchè io possa avere un motivo per odiarlo. Se restiamo troppo vicini, troppo uniti, cadiamo inesorabilmente uno dentro l’altro, soffocati in un dolore lancinante che ci fa perdere l’orientamento, ci asciuga le parole. Anche quelle oscene che mi dice, sono diverse da tutte le altre che mi sento rivolgere ogni giorno. Sembra che quello che dica sia costruito solo per me, sia stato creato in quel momento per un unico individuo su tutto il pianeta e con sorpresa scopro, ogni volta, che quell’individuo sono io. Quando se ne va, sono sempre tentata di trascriverle, avevo un quaderno con il suo nome scritto sopra all’inizio, perché sono certa che nessun altro dirà più cose di questo tipo su di me, ed ho paura di dimenticarle, schiacciate da tutte quelle che mi vomitano addosso gli altri, con una certa urgenza, mosse solo dal furore dell’orgasmo imminente, quelle inutili, per intenderci. Mi lecca la faccia come fa una cagna con i suoi cuccioli, mentre penso a questo. Vuole ancora. Ancora. Ma è tardi e se ne deve andare. Glielo dico. Dice che lo sa e che vuole ancora. Mi dà fastidio fare aspettare un cliente ma lui dice che vuole ancora, di lasciare pure la porta aperta, così l’altro può spiare e arrivare già pronto, inferocito dall’eccitazione, al suo appuntamento con me.
Faccio come dice lui. Ubbidisco. Lascio la porta aperta. Mi appoggia le mani sulle spalle e di nuovo decide lui. Non lo so quanto tempo è trascorso, so soltanto che girando lo sguardo vedo l’altro seduto sul divano in silenzio, come se fosse stato ammesso ad osservare un rituale a lui vietato, finora. Poi, neanche fosse il primo uomo esistito, quello che ha inventato la parola e scoperto il fuoco, libera una tale violenza nel grido finale, che l’altro abbassa lo sguardo serio, come per pudore e da questo momento, smette di spiarci. Io chiudo gli occhi. Non ho mai forze dopo di lui. Mi giro su un fianco per riprendere a respirare piano e non vedere che si sta rivestendo. Non voglio vedere l’istante in cui sparisce dietro la porta e mi troverò da sola con l’altro, senza di lui. Non saluta, come quando è arrivato. Non sento neppure i suoi passi, nè il fruscio dei suoi abiti mentre si rinfila la giacca.
Mi accorgo che già non c’è più. Sembra essersi dissolto. Resto sul fianco, immobile, continuo a respirare ed ecco che sento una mano goffa che mi sfiora. Prima incerta, poi più sicura si fa strada sotto la canotta leggera e arriva al seno che mi stringe con la forza malsana di chi è in astinenza da troppo tempo e capisco che è arrivato il momento di iniziare a lavorare. Il mio cliente vuole la sua mezz’ora di felicità, dopo quell’attesa eccitante ma fin troppo prolungata. Ed è ora di pagare pegno.

 

 

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Redazione
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