Il bracciolo fritto cervetrano
Il carciofo, da quasi un secolo, è avvinto, come l’edera ai muraglioni di tufo, a Cerveteri, costituendone, ancor più dai tempi della Riforma agraria del cinquantadue, il cardine della sua identità economica e culturale.
Un anno buono, senza gelate e senza un improvvido e prematuro sbocciare di margherite, riuscendo a tenere il prezzo nei mercati generali di mezza Italia, poteva permettere ai carciofolari di terminare ‘n’altro vano o pagare parecchie rate della seicento.
Il mazzo di cimaroli, stretti e legati col fil di ferro, hanno aperto una infinità di strade nella Capitale ed oltre, superando anche la linea Gotica.
Controlli medici e ricoveri urgenti, scivoli per la pensione, uffici del catasto e dei tributi, ripetute lunghe licenze durante l’inutile ed umiliante servizio militare.
Perfino le scuffione del Celio ed i soliti marescialli ciociari intrallazzoni, si erano impietosite nei confronti delle reclute di Agylla , in visita medica dopo i tre giorni, di fronte ad uno splendido mazzo di cimaroli.
Più di un lasciapassare papale: questo hanno rappresentato i carciofoli per il popolo d’Etruria. Molto più, perché meno imbarazzanti, del piattino a gancio o del buccheretto.
Se fosse stata una comunità conseguente avrebbe imposto come emblema del Gonfalone un bel mazzo di campagnano, altro che il cervo a tre teste.
Poche sere fa, ancora una volta, ne ho tastato il valore di assoluta ed unica bontà, a cena con l’amica e compagna Rossanda.
Una braccicata di braccioli, raccolti nel primissimo pomeriggio nella piana di Zambra: “quelli boni,non ormonati”, mi ha riferito il fruttarolo che, a tutti i costi me ne ha fatto omaggio, sono finiti in olio bollente e mangiati ancora caldi.
Che dire?
Si scioglievano in bocca: quel dolce misto ad un leggerissimo amarognolo che fa del carciofo cervetrano un unicum.
Angelo Alfani