di Angelo Alfani
Erano da poco passate le otto ma c’era già una callaccia che faceva sudare pure le ranocchie. Da un bel pezzo Riri’ aveva rincorso la corriera prendendola al volo davanti al distributore di Papi, all’inizio della discesa. I rondoni, solitamente chiacchieroni, se ne stavano muti, acquattati sotto le tegole del palazzo Municipale. Ai tavolini della Baricella un rimescolamento di padri e nonni appena giunti dalla campagna, incrociavano figli e nipoti col culo ancora sul sellino dei motorini, reduci da raid notturni lungo la costa. Scherzavano tra loro pesantemente”Ma n’te sa ora de tornattene a casa?” pungolò Sergetto, il padre. “Mo ce vado, mo ce vado! ‘Na pennica adesso nun me la leva nessuno. So sfatto!”. “Ma guarda che sa da sentì! Me basterebbe che tu padre me desse er via. Mica tanto, cinque minuti solo, che te raddrizzo la schiena!” disse Menico rivolto al nipote. “A no’ mica me farai er geloso?”. “Io er geloso? Ai tempi tua non sapevo a chi dà il resto, bello!”. ”Non te scallà troppo Menico che te saltano le coronarie. Marzio, a Marzio! Porteie birra e gazzosa a sta comitiva de micragnosi! Passo dopo a pagà. Stamattina offre la mejo gioventù!” disse Robberto sgasando volutamente e sparendo in fretta per via Agyllina. Poi la conversazione riprese, con ritmo concitato, concentrandosi sulla riunione della Giunta comunale della sera precedente. Cosa mai accaduta in passato, in nome di inderogabile necessità, era stata approvata una proposta di deliberazione il cui contenuto era più blasfemo di un rosario di bestemmie. A maggioranza si concesse diciassette e ottenuto, ufficialmente, cinque. “Un affarone!” sostenevano a bassa voce quelli che da tempo gironzolavano intorno all’affare, come cani intorno all’osso. “Un suppostone!” replicavano quelli che non ce volevano sta a fasse sempre cojonà. Nel frattempo la macchina del brigadiere Patanè, zeppa di ombrelloni, ciambelle, panini, bibbite e persone, attraversava Via Roma in direzione dei giardini. Era riuscito ad ottenere il permesso dal sor Cesare, fattore della Principessa, di passare dal polveroso stradone che portava agli Scojetti. Il brigadiere c’era stato una sola volta, per servizio, assieme al comandante Saporito. Avevano percorso la strisciata bianca e polverosa, in mezzo ad un mare verde di carciofi che arrivavano dall’Aurelia fino alla prime dune bionde. Scavallati i binari avevano abbandonato l’automobile e, affondando nella sabbia, erano arrivati alla macchietta tonda a tamerici, roverelle ed un insolito buzzarago. Proprio in quell’atollo verde, sotto un mucchio di frasche rinsecchite, ci avevano rinvenuto una povera disgraziata, sfregiata a dovere. Stavolta invece Patanè ci andava con la famiglia, suoceri compresi, a divertirsi, evitando il fagottume di Cerenova e la marsumaja di Ladispoli. Gli Scojetti più che un luogo geografico erano, per i cervetrani, un luogo mitico. Molto più che affioranti rocciose piattaforme a poca distanza dal bagnasciuga, erano una esperienza dell’anima. Andarci significava superare consolari, binari e beccasse tanta polvere, ma soprattutto violare il divieto di una principessa altera e distante dai paesani quanto il suo palazzotto. L’andarci di straforo, scavalcando l’inscavalcabile, aggiungeva alla bellezza del luogo quel prurito che ti prende alle mani quando vai a caccia di frodo in riserva o a riprodare negli uliveti di Calabresi o di Piscini. Alla fine della sterrata la famiglia Patanè affondò i pneumatici nella sabbia e caricandosi come somari si diressero verso un’incannicciata ottagonale a chiusura di una palafitta di castagnoli infilzati nella sabbia. Sotto il capanno raccolsero le vettovaglie, i vestiti, le peruzze e le susine ed una sventola di cocomero di più di venti chili. Un piccolo gruppo di cervetrani salutò, ma senza il consueto entusiasmo, l’arrivo della comitiva. In mezzo alla caciara dei regazzini che continuavano a tuffasse ed a prendersi a secchiate d’acqua il gruppetto degli adulti aveva fatto cerchio intorno ad un pecoraro, ruminante nelle terre della principessa. Giacca e pantaloni di fustagno, coll’acqua che gli era arrivata al polpaccio, raccontava di aver visto, sul presto, un gruppetto di giovanotti fa avanti e indietro tra gli Scojetti e la spiaggia. Raccontò che una montagna di cozze vennero scartavetrate dalle rocce e insaccate in iuta, trasportate a riva e buttate nel cofano di una seicento. Senza tregua gli scorticatori degli Scojetti, come mosconi su escrementi di vacche maremmane, zavorravano di cozze persino i pesanti costumi di lanetta. Il pecoraro aveva anche trainteso dire che servivano per una cena speciale, molto speciale. Carletto di Peppina, Luigino il carrozziere ,Piergiorgio, invitarono a gran voce Carletto di Peppina, ad abbandonare gli Scojetti e tornarsene a riva. “Carletto lassa perde. Stanotte hanno fatto banzai!”. Quanto accaduto fece si che la giornata al mare di Patanè si consumasse tristemente fino al ritorno anticipato al pianoro tufaceo. A partire dalla tarda serata, lungo la statale , macchinoni, zeppi di consiglieri comunali, a tremila serpeggiavano tra i pini marittimi, disturbando non poco ciovette ed allocchi usciti a caccia, diretti ad un casale. Occhialino, spirito ecologico per scelta ideologica, se l’era fatta tutta in bicicletta dalla piazza, dove aveva lasciato una automobile da emigrato turco che torna in Cappadocia dopo sei anni di Baden-Württemberg, L’ultimo strappetto fu costretto a farlo a tutta callara, inseguito da due cani maremmani. Raggiunse la comitiva durante l’ennesimo brindisi, impaurito e coll’occhi abbottati di pianto. Si strafogarono! L’impepata di cozze dei Scojetti fu il piatto forte della serata: uno spicchio d’aglio a testa, pepe a cascata e prezzemolo a manciate.Soicchi di limone per nettere le dita. Trascorsero poche ore che gli ospiti si vomitarono pure l’anima con coliche addominali dolorosissime. Su all’ ambulatorio delle suore si trascorse una nottata a lavande gastriche a getto continuo. Un via vai volutamente nascosto, ma accompagnato purtroppo da spasmi e urla isteriche, si spandeva dalla chiesetta giù per la discesa fino alla bottega di Pietro l’anguillarino. In paese, oramai, tutti sapevano tutto. Furono svariati a sostenere che una mano vigliacca avesse piazzato cozze fraciche dentro al padellone. Molti i sospettati ma mai un sicuro colpevole. Carletto di Peppina, tra una palletta e un palluccone, una manciata di cartucce e qualche ditalino, continuava a ripetere che non potevano essere state le cozze degli Scojetti. ”Ci avranno infilato una retina di cozze di Focene” ripeteva ad un silenzioso, ma approvante Valerio. Bianchi come lenzoli, per la sciorta durata tutta la nottata, avvocato Potrebbe Fasse, architetto Spirito Libero, ragioniere Centinpicci, geometra Sepofasepofa, consiglieri tatuati a sinistra ed a destra, nipotini politici, campagnoli dai condizionali improvvisati, faccendieri vari, pletore di medici generici e meno generici, leccaculi di ogni risma, arrivarono in chiesa per la messa domenicale. In un silenzio tombale, con cent’occhi buttati addosso ai lenzolati, la predica di don Luigi iniziò dal salmo 129: De profundis clamavi ad te, Domine: Domine exaudi vocem meam. Siano i Tuoi orecchi attenti alla voce della mia preghiera, Signore. Se consideri le colpe di alcuni miei filiuoli, Signore, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di Te è perdono, perciò avremo il tuo timore. Tu solo, Signore, hai il diritto di punire i colpevoli! Tu solo, Signore, redimerai Cervetri da ogni sua colpa”
PS: Le foto rappresentano il passaggio tra mondi diversi