Dopo oltre trent’anni di silenzio, misteri e piste senza sbocco, il caso dell’omicidio di Antonella Di Veroli, la commercialista uccisa nel suo appartamento nel quartiere Talenti a Roma nel 1993, torna al centro dell’attenzione giudiziaria. La Procura di Roma ha ufficialmente riaperto le indagini, affidando il fascicolo alla pm Valentina Bifulco, sulla base di una nuova istanza avanzata dai familiari della vittima. A rilanciare l’inchiesta sono nuove analisi scientifiche rese possibili dalle tecnologie attualmente in dotazione agli investigatori. In particolare, i carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci stanno riesaminando reperti mai completamente chiariti all’epoca: bossoli, un’ogiva rinvenuta tra i capelli della vittima e un’impronta rilevata sull’anta dell’armadio dove fu nascosto il corpo.
Una scena del crimine da film dell’orrore
Era il 20 marzo 1993 quando il corpo senza vita di Antonella Di Veroli, 47 anni, stimata professionista e molto conosciuta nel quartiere, venne rinvenuto all’interno di un armadio nel suo appartamento di via Domenico Comparetti. A fare la macabra scoperta furono la sorella della vittima, un’amica e l’ex socio di studio, Umberto Nardinocchi, preoccupati per l’assenza prolungata di Antonella. L’immagine che si presentarono davanti fu sconvolgente: il cadavere giaceva rannicchiato, nascosto dietro le ante dell’armadio sigillate con silicone. La donna aveva un foro alla testa, compatibile con un colpo d’arma da fuoco, e un’ogiva era rimasta tra i suoi capelli. In casa non c’erano segni di effrazione, e nulla sembrava essere stato portato via. L’unico elemento davvero anomalo era la presenza di tracce di silicone fresco sull’armadio, utilizzato per sigillare le ante e ritardare il ritrovamento del corpo. Una modalità insolita, forse simbolica, forse per guadagnare tempo nella fuga.
Un’indagine che si è arenata nel tempo
Le indagini dell’epoca si sono subito concentrate sulla cerchia più ristretta della vittima. In particolare, fu ascoltato più volte Nardinocchi, l’ex socio e uno degli scopritori del cadavere. Nessuna accusa, tuttavia, fu formalizzata nei suoi confronti, e l’inchiesta, dopo una lunga fase di stallo e nessuna svolta concreta, venne archiviata. Negli anni, la famiglia di Antonella Di Veroli non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia, convinta che il delitto fosse stato premeditato e che il killer conoscesse bene la vittima.
I nuovi elementi e la speranza nei progressi scientifici
A distanza di tre decenni, grazie alle nuove tecnologie di investigazione forense, elementi un tempo insufficienti potrebbero ora rivelare tracce biologiche, impronte parziali, residui balistici o DNA latente. L’impronta sull’anta dell’armadio è uno dei reperti su cui gli inquirenti puntano maggiormente: potrebbe appartenere all’assassino o a qualcuno presente nella scena del crimine, e il confronto con le banche dati genetiche e dattiloscopiche odierne potrebbe dare un nome a chi, finora, è rimasto nell’ombra. Stesso discorso per l’ogiva: mai completamente analizzata con gli standard attuali, potrebbe fornire informazioni balistiche e tracce di materiale organico del proiettile o del caricatore. Il bossolo, anch’esso repertato ma non conclusivamente attribuito a un’arma specifica all’epoca, sarà riesaminato nei laboratori del RIS, alla luce di banche dati aggiornate su armi, calibro e provenienza.
Famiglia fiduciosa, silenzio degli inquirenti
“Non abbiamo mai smesso di credere che la verità potesse venire fuori”, ha commentato un familiare della vittima, raggiunto telefonicamente. “Antonella meritava giustizia allora, e la merita ancora oggi”. Massimo riserbo invece da parte della Procura e dei carabinieri, che non confermano né smentiscono l’apertura di nuove piste, ma confermano che i lavori sui reperti sono già in corso. Quella che per oltre trent’anni è stata una pagina buia della cronaca romana, potrebbe ora conoscere una nuova e decisiva fase investigativa. La speranza è che, questa volta, i nuovi strumenti e la tenacia di chi non ha mai smesso di cercare risposte, riescano a illuminare un mistero rimasto troppo a lungo sepolto nel tempo e nel dolore.