domenica, Novembre 16, 2025

Ludopatia. La testimonianza di Alessandro: “Serve sostegno, da soli difficile uscirne”

Non è facile riconoscere di avere bisogno. Ancor meno lo è alzare la mano e chiedere aiuto. Eppure, per molti, quel passo difficile rappresenta l’inizio di un cammino: una strada condivisa, fatta di ascolto, confronto, e piccoli gesti che diventano ancore di salvezza. In una società in cui il disagio psicologico e sociale si insinua spesso nel silenzio delle case, i gruppi di autoaiuto tornano ad essere uno strumento prezioso – ma troppo spesso sottovalutato. Lo raccontano storie comuni, vissute in silenzio tra le mura domestiche. Madri sole, uomini segnati dalla disoccupazione, adolescenti sopraffatti dall’ansia, anziani dimenticati: ognuno con la propria battaglia, tutti accomunati dalla stessa fatica di farsi comprendere. In questo contesto, sono spesso i familiari o gli amici più stretti a cogliere per primi i segnali del malessere, a intuire che qualcosa non va, che quella tristezza costante, quell’apatia, quell’isolamento crescente non sono solo “un brutto periodo”. «È stata mia sorella a insistere perché mi unissi a un gruppo», racconta Roberto, 39 anni, ex impiegato che ha perso il lavoro durante la pandemia. «All’inizio ero scettico, mi sembrava una perdita di tempo. Poi ho scoperto che ascoltare storie simili alla mia mi aiutava a sentirmi meno solo». Una scoperta che cambia la prospettiva: non più la vergogna di esporsi, ma la forza del condividere. Nel cuore della città e nelle sue periferie, gruppi spontanei o organizzati da associazioni e servizi sociali si riuniscono ogni settimana: nelle parrocchie, nei centri civici, persino in piccoli bar che, dopo l’orario di chiusura, aprono le porte a chi cerca un po’ di conforto. Non servono diagnosi o cartelle cliniche: basta la volontà di mettersi in gioco, e magari un amico che accompagni al primo incontro. Spesso è proprio questa la spinta decisiva. «Sapevo che mia madre non stava bene, ma non voleva parlarne con nessuno», racconta Chiara, 26 anni. «Alla fine le ho chiesto solo di accompagnarmi a un incontro per “vedere com’era”. Non ne ha più saltato uno». Un piccolo passo che può accendere un cambiamento. Gli esperti lo confermano: il potere dell’autoaiuto non sta nella soluzione immediata dei problemi, ma nella costruzione di un senso di appartenenza, nella possibilità di trovare parole dove prima c’era solo silenzio. «In gruppo si impara a rielaborare il proprio dolore, a riconoscere che le fragilità non sono colpe», spiega uno psicologo che segue diverse realtà associative a Roma. «E a volte basta sapere che qualcuno ha attraversato lo stesso buio per intravedere un’uscita». Oggi più che mai, in un tempo di incertezza e di rapporti liquidi, serve ricostruire legami di fiducia e solidarietà, e i gruppi di autoaiuto offrono una via concreta, umana e accessibile. Non servono grandi risorse economiche, ma serve il coraggio di parlarne, di non minimizzare, di non voltarsi dall’altra parte. Ed è qui che entrano in gioco le famiglie, gli amici, i vicini di casa: la rete invisibile che può salvare una vita con una semplice frase: “Non sei solo. Andiamo insieme”.

Articoli correlati

Ultimi articoli