“Nessun perdono. Non lo meritano. Voglio che paghino per ciò che hanno fatto e avere giustizia.” Con la voce ancora spezzata dalla paura, ma lo sguardo fermo di chi non intende farsi spezzare dalla violenza, Alessandro — 25 anni, romano, impiegato in un’agenzia creativa — racconta l’incubo vissuto sabato notte, nel centro di Roma. Un’aggressione brutale, vigliacca, avvenuta in pieno centro, tra vicoli che di giorno brulicano di turisti e romani, e che di notte, invece, possono trasformarsi in scenari da cui è difficile uscire indenni. Un pestaggio feroce, motivato da un solo, inaccettabile motivo: Alessandro è gay.
L’aggressione
Sono da poco passate le due del mattino. Alessandro ha trascorso la serata in un locale di Trastevere con alcuni amici, poi decide di rientrare da solo, come ha fatto tante altre volte. Cammina con passo sicuro lungo via della Lungaretta, le mani in tasca e le cuffiette nelle orecchie, la mente ancora piena di musica e risate. Pochi minuti dopo, tutto cambia. Un gruppo di ragazzi — probabilmente tra i 20 e i 30 anni — lo avvicina. Iniziano con insulti a bassa voce, poi il tono si alza. Qualcuno gli urla “frocio”, altri ridono, si danno di gomito. Alessandro accelera il passo, istintivamente. Ma è tardi. Lo accerchiano. “Erano in cinque, forse sei. Mi hanno bloccato, insultato. Ho cercato di spiegare, di andarmene. Poi è arrivato il primo pugno. Dopo non ricordo molto, solo calci, sputi, mani addosso. E la sensazione di non riuscire più a respirare.” I colpi arrivano in sequenza, con una violenza cieca. Alessandro finisce a terra, cerca di proteggersi il volto, ma il branco non si ferma. Solo l’arrivo di una coppia, richiamata dalle urla, riesce a mettere in fuga gli aggressori. La scena si consuma in meno di tre minuti. Tre minuti di terrore puro.
Il ricovero e la denuncia
Alessandro viene soccorso dal 118 e trasportato all’ospedale Fatebenefratelli. Frattura del setto nasale, ecchimosi al volto, contusioni multiple su tutto il corpo. Ma le ferite più profonde non sono visibili. “Quando mi hanno chiesto perché fossi stato picchiato, ho fatto fatica a dirlo. Avevo vergogna. Ma poi ho capito che il silenzio è proprio ciò che vogliono questi vigliacchi.” Domenica mattina, ancora con i lividi freschi, Alessandro si reca dai Carabinieri per sporgere denuncia. Fornisce una descrizione degli aggressori e indica il luogo esatto dell’attacco. Gli investigatori stanno analizzando le telecamere di sorveglianza nella zona e raccogliendo testimonianze. Fonti vicine all’inchiesta parlano di ipotesi di aggressione a sfondo omofobo aggravata in concorso, un reato su cui il codice penale italiano — ancora privo di una legge specifica contro l’omotransfobia — non sempre riesce a intervenire con la durezza che questi casi meritano.
“Questa è la mia città. Non me la faccio portare via”
A pochi giorni dall’accaduto, Alessandro ha deciso di raccontare pubblicamente la sua storia. Lo fa senza cercare protagonismo, ma con la consapevolezza che la visibilità può diventare uno scudo, una forma di resistenza. “Volevano farmi sentire sbagliato, volevo solo sparire. Ma poi mi sono detto: io non ho nulla di cui vergognarmi. Loro sì.” E ancora, con la voce incrinata: “Non voglio che nessun altro debba vivere quello che ho vissuto io. Camminare per la propria città e temere per la propria vita solo perché sei gay. È inaccettabile.”
Il silenzio che uccide
L’aggressione di Alessandro non è un caso isolato. Solo negli ultimi mesi, le associazioni LGBTQIA+ hanno registrato un aumento significativo degli episodi di violenza e discriminazione a Roma e in molte altre città italiane. Spesso si tratta di atti non denunciati, consumati nel silenzio per paura o rassegnazione. Il presidente di Arcigay Roma, in una nota, ha condannato l’attacco definendolo “l’ennesimo segnale di un clima d’odio che continua a serpeggiare nella nostra società, alimentato da narrazioni tossiche e da una politica che non ha mai avuto il coraggio di proteggere davvero le nostre vite”.
Una richiesta di giustizia
Intanto, Alessandro aspetta. La giustizia farà il suo corso, spera. Le immagini delle videocamere potrebbero essere decisive per identificare i responsabili. Ma la sua richiesta è chiara, netta, carica di una dignità profonda: “Nessun perdono. Non lo meritano. Voglio che paghino per ciò che hanno fatto. Voglio che la legge dica, una volta per tutte, che quello che mi è accaduto è un crimine. Non un episodio. Non una bravata. Ma un crimine.” In una Capitale che di notte può ancora diventare teatro di odio e di paura, la voce di Alessandro squarcia il silenzio. Forte. Viva. Indignata. E pretende giustizia.