Il Centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica, con il Dipartimento della Pubblica Sicurezza e quello per la Giustizia Minorile, ha tracciato la prima mappa delle baby gang in Italia. Il tratto comune è la violenza: risse, bullismo, atti vandalici. Alcuni gruppi strutturati si dedicano a spaccio, furti e rapine. Hanno una decina di componenti, maschi e tra i 15 e i 17 anni, nella maggior parte dei casi italiani. Sono per lo più prive di una gerarchia, più presenti a Nord e più strutturate a Sud. A influenzare i ragazzi nella scelta di aderire a una baby gang concorrono svariati fattori: rapporti problematici con le famiglie o con il sistema scolastico, ma anche difficoltà relazionali o di inclusione nel tessuto sociale e un contesto di disagio sociale o economico. Molti di questi elementi sono stati ulteriormente acuiti durante il periodo pandemico. Diversi studi hanno infatti evidenziato come la recente pandemia da Covid-19 abbia avuto un forte impatto sulla quotidianità dei ragazzi, causando un peggioramento delle condizioni oggettive e soggettive di benessere personale. Influente è anche l’uso dei social network come strumento per rafforzare le identità di gruppo e generare processi di emulazione o auto-assolvimento. Stando alla ricerca, le vittime più frequenti delle baby gang attive in Italia sono altri giovani tra i 14 e i 18 anni. “Le forze di polizia costituiscono un osservatorio privilegiato sulle devianze che affliggono il mondo dei giovani”, ha commentato il vice direttore generale della pubblica sicurezza, il prefetto Vittorio Rizzi. “Scontri tra gruppi di giovani più o meno organizzati, atti di violenza e teppismo che spesso hanno come vittime altri minori bullizzati, che faticano a denunciare. Il nostro compito è quello d’intercettare i fenomeni di disagio sul nascere, intervenire per evitare un’escalation della violenza e, soprattutto, perché le vittime abbiano fiducia nelle forze di polizia e chiedano subito aiuto”. Gli adolescenti “continuano a essere terra di nessuno”, afferma Vincenza Palmieri, presidente dell’Istituto nazionale di Pedagogia familiare. “I ragazzi che commettono reati vengono allontanati dalla famiglia perché, dicono, non li ha saputi educare. Ma se fosse vero che è stata la famiglia a non saperli educare perché noi condanniamo il minore? Educhiamo la famiglia, allora. Se mettiamo il minore in comunità, gli verranno dati psicofarmaci per sedare la rabbia, con passaggi in psichiatria. E nessuno mi farà mai credere, per la mia lunga esperienza nel settore, che da lì ne uscirà un modello di virtù. Le famiglie vanno aiutate a casa loro, come nucleo”.