Il Consiglio Europeo che si apre oggi a Bruxelles, e che potrebbe protrarsi anche nella giornata di domani, si annuncia come uno dei più complessi degli ultimi mesi. Al centro del vertice c’è la decisione su come finanziare il sostegno all’Ucraina nei prossimi due anni, un dossier che una fonte diplomatica coinvolta nei negoziati definisce senza mezzi termini «abbastanza complicato». Il nodo principale è il cosiddetto prestito di riparazione, un finanziamento europeo basato sull’utilizzo dei beni russi congelati dopo l’invasione dell’Ucraina. Si tratta di circa 210 miliardi di euro appartenenti alla Banca centrale della Federazione Russa, dei quali 185 miliardi sono custoditi da Euroclear, il colosso belga che rappresenta uno snodo cruciale del sistema finanziario globale per la compensazione e la custodia dei titoli, con ramificazioni che vanno ben oltre l’Europa, fino ai mercati statunitensi e asiatici. Al momento, questo resta l’unico strumento formalmente sul tavolo, nonostante la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen abbia recentemente parlato di «due soluzioni»: un prestito Ue fondato sul margine del bilancio comune e uno basato sugli asset russi congelati. In realtà, la prima opzione era stata presentata dalla Commissione con la consapevolezza che difficilmente avrebbe superato l’esame politico, anche grazie alla linea prudente della presidenza di turno danese del Consiglio Ue. Nei documenti iniziali della Commissione, peraltro, le opzioni erano tre. La prima prevedeva trasferimenti diretti all’Ucraina da parte dei singoli Stati membri, una proposta rapidamente accantonata senza un vero dibattito, con la motivazione che avrebbe gravato eccessivamente sui bilanci nazionali. Una gestione che, a Bruxelles, non manca di suscitare critiche, con gli ambasciatori costretti a lunghe maratone negoziali, spesso fino a notte fonda, su un testo che appare sempre più complesso man mano che il summit si avvicina. Anche questa sera il Coreper è tornato a riunirsi nel tentativo di trovare un terreno comune. Sul tavolo pesa anche il ruolo della Danimarca, presidente di turno dell’Ue e storicamente parte della cosiddetta “filiera dei Frugali”, insieme a Germania e Paesi Bassi, tradizionalmente contrari a qualsiasi forma di debito comune europeo. Posizioni che negli ultimi anni si sono in parte ammorbidite alla luce delle tensioni geopolitiche, come dimostra la linea della premier danese Mette Frederiksen, favorevole a un forte aumento delle spese militari dopo le minacce di Donald Trump sulla Groenlandia. Anche altri protagonisti chiave del dossier, come l’estone Kaja Kallas e il commissario all’Economia Valdis Dombrovskis, appartengono a quell’area politica storicamente scettica sugli Eurobond. Tuttavia, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, i Paesi baltici hanno mostrato maggiore flessibilità, spinti da evidenti ragioni di sicurezza. In queste ore riaffiora così una frattura che ha segnato a lungo la storia dell’Unione europea, solo temporaneamente ricomposta durante la pandemia con il varo di Next Generation Eu: quella tra i Paesi favorevoli al debito comune e quelli fermamente contrari. L’ipotesi di un nuovo debito Ue è stata menzionata anche al Coreper, ma richiedendo l’unanimità – e con l’Ungheria notoriamente contraria – è stata rapidamente «messa sullo scaffale», come ha ammesso un alto funzionario europeo. Gli sforzi si sono quindi concentrati sull’unico testo giuridico presentato dalla Commissione, quello relativo al prestito di riparazione. Ma le perplessità non mancano: almeno sette Paesi hanno espresso dubbi, e non tutti pubblicamente. Il Belgio guida un’opposizione particolarmente dura, essendo lo Stato che rischia di più per via del ruolo centrale di Euroclear. Il premier Bart De Wever è riuscito a compattare il Paese contro l’operazione sugli asset russi, un risultato non scontato in un contesto segnato da proteste e scioperi contro i tagli al bilancio. Italia, Bulgaria e Malta hanno sostenuto Bruxelles nel rendere semi-permanente, a maggioranza qualificata, il congelamento dei beni russi, una scelta fondata sull’articolo 122 del Trattato sul funzionamento dell’Ue. Una mossa che il premier ungherese Viktor Orbán ha definito un vero e proprio «stupro del diritto europeo». I tre Paesi hanno comunque allegato una dichiarazione chiedendo di esplorare soluzioni alternative e meno rischiose. Ungheria e Slovacchia restano su posizioni apertamente non allineate al sostegno incondizionato a Kiev, mentre la Repubblica Ceca, con il ritorno al potere di Andrej Babiš, si muove su una linea più prudente. Il premier ceco ha già chiarito che Praga non intende contribuire alle garanzie necessarie affinché il prestito non assuma i contorni di una confisca. A margine di un prevertice dei Patrioti per l’Europa, Babiš ha previsto negoziati «fino all’ultimo minuto». Se fino a ieri l’obiettivo dichiarato era ottenere un via libera «il più vicino possibile a 26 Stati», oggi quello scenario appare tutt’altro che scontato. Il progetto resta formalmente sul tavolo, ma l’alternativa evocata dalla Commissione – un prestito basato sull’headroom del bilancio Ue, sul modello tecnico di Next Generation Eu – richiederebbe comunque l’unanimità, rendendo il cammino politico ancora più accidentato. Un vertice, dunque, che rischia di trasformarsi in una lunga e delicata prova di tenuta per l’unità europea.
Ue, summit ‘complicato’ su finanziamenti Ucraina: il nodo dei beni congelati alla Russia






