giovedì, Marzo 28, 2024

Gli studenti dell’istituto Corrado Melone in visita al Ghetto di Roma

Riceviamo e pubblichiamo: “Il 5 ottobre 2018, noi ragazzi della III H della “Corrado Melone” di Ladispoli, accompagnati dalle professoresse Di Girolamo e Specchi, ci siamo recati al ghetto di Roma, situato tra il rione di Trastevere, Largo Arenula, Via del teatro di Marcello, Largo Argentina e il Lungotevere dei Cenci. Il ghetto ebraico di Roma è tra i più antichi del mondo, fu istituito da papa Paolo IV nel 1555. Fu scelta la zona del rione sant’Angelo perché era il luogo dove si concentravano molti ebrei. Oltre all’obbligo di risiedere all’interno del ghetto, i cui cancelli del “serraglio” si aprivano all’alba e si richiudevano al tramonto, gli ebrei dovevano portare un distintivo che li rendesse sempre riconoscibili (un fazzoletto o un cappello coloro glauco), inoltre erano obbligati a svolgere soltanto alcuni tipi di lavori come rigattieri, straccivendoli, venditori ambulanti e non potevano possedere dei beni immobili. Nel 1849 la segregazione fu abolita e nella nuova capitale del Regno d’Italia furono costruiti gli argini in muratura al fiume Tevere e buona parte delle antiche stradine e dei vecchi edifici malsani e privi di servizi igienici furono demoliti, creando nuove strade e isolati. Nel settembre del 1943 la comunità ebraica romana era molto numerosa, ma all’indomani dell’occupazione tedesca di Roma (10 settembre 1943) i Tedeschi avevano deciso che tutti gli ebrei italiani dovessero essere trasferiti in Germania per essere “liquidati”, cioè uccisi. Prima però, nel settembre del 1943, il comandante delle SS, Herbert Kappler, ricattò gli ebrei: li obbligò a consegnare entro due giorni 50 chili d’oro in cambio dell’incolumità di 200 capifamiglia ebrei. Tutta la comunità ebraica si attivò e riuscì a raggiungere la quantità pattuita, sentendosi ormai al sicuro, ma nonostante ciò i Tedeschi non rispettarono l’accordo e continuarono a programmare la deportazione degli ebrei romani. Tutta questa storia siamo riusciti a comprenderla anche grazie alla visione del film “L’Oro di Roma” di Carlo Lizzani che abbiamo visto e commentato insieme in classe alcuni giorni prima della visita. Il 16 ottobre 1943 i nazisti effettuarono l’arresto della maggior parte degli ebrei ancora residenti al ghetto, ma anche in altre zone di Roma. Quel giorno all’alba, dopo aver circondato il quartiere, le guardie tedesche sequestrarono oltre mille ebrei, oltre mille persone tra cui donne, bambini, anziani, malati, neonati. Li rinchiusero prima nel collegio militare di palazzo Salviati (dove furono rilasciate alcune persone che non erano ebree), gli altri dopo due giorni furono portati presso la Stazione Tiburtina dove furono caricati su dei treni merci e il 18 ottobre 1943 partirono per Auschwitz. Alcune persone, fortunatamente, riuscirono a scappare nascondendosi in cisterne d’acqua vuote, rifugiandosi in scantinati, nei sotterranei di alcune chiese cattoliche. C’era però un altro problema: per ogni ebreo denunciato era stato definito un compenso, una somma di denaro abbastanza alta , ciò spingeva la gente a segnalare la presenza di una famiglia ebrea in un determinato luogo in cambio di soldi. Alla fine della guerra soltanto 16 persone tra cui 1 donna (Settimia Spizzichino) tornarono a Roma. Passando per le vie del ghetto abbiamo trovato delle “pietre d’inciampo” ovvero sampietrini situati davanti alle porte delle case in cui abitavano gli ebrei deportati. Sulla lastra di ottone viene inciso il nome della persona, la data di nascita, la data dell’arresto e in alcuni casi la data e il luogo della morte, è un modo ideato dall’architetto tedesco Gunter Demnig alla fine degli anni Novanta per non dimenticare e non diventare indifferenti a questa tragedia. Dopo la visita ai vicoli del ghetto ci siamo recati presso la Casina dei Vallati per visitare la mostra “Vite Spezzate” . Come si può comprendere dalle parole scelte, la mostra racconta il dramma vissuto dagli ebrei dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938 di cui quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario. In questa mostra delle foto, dei documenti diventano la prova tangibile che c’è stato un prima e un dopo. Qualcosa che probabilmente molti di noi non riescono neanche ad immaginare; persone che andavano a scuola, persone che frequentavano il liceo, l’università, che studiavano, insegnanti, docenti, persone che lavoravano nell’esercito, nella pubblica amministrazione, che praticavano sport e un giorno all’improvviso la loro vita “si spezza” e finisce la normalità. Infatti la nostra guida, Marco Calò, di “razza ebraica”, come si è descritto lui stesso, sottolineando il valore dispregiativo usato dai nazisti ai tempi del conflitto, ci ha illustrato con chiarezza e precisione cosa successe dopo l’emanazione delle leggi razziali. Nelle sale abbiamo apprezzato un ricco repertorio di fonti storiche dell’epoca: giornali, foto, video, oggetti che rappresentano la messa in atto delle leggi razziali nella vita quotidiana delle persone. Alcuni passaggi della spiegazione ci hanno colpito molto: non furono solo professori e studenti a ricevere limitazioni; molte importanti case editrici dovettero cambiare nome per riuscire a continuare a lavorare, vendere l’attività o in molti casi chiudere. Inoltre ad alcuni musicisti affermati fu impedito di continuare a suonare e a comporre, i brani dei compositori ebrei scomparirono dalla circolazione, agli scrittori fu impedito di scrivere e i loro libri furono bruciati. In una sala abbiamo potuto comprendere che anche nello sport ci furono delle conseguenze: agli sportivi ebrei fu vietato l’accesso nei club sportivi dopo l’emanazione delle leggi e in molti casi si arruolarono come partigiani. Con il 16 ottobre del 1943 la sorte di queste persone divenne ancora più drammatica, la deportazione divise intere famiglie, molti gli ebrei che non fecero ritorno. È diversa la sorte per la nostra guida, Marco Calò, che ancora bambino, quella mattina era a casa malato in compagnia della zia, mentre la madre e la nonna si trovano a fare la fila per comprare le sigarette; il padre si era già rifugiato in un convento. Quella mattina, avvisati da una vicina “ariana”, riescono a rifugiarsi in una chiesa cattolica dove vengono raggiunti dalla madre e la nonna. Per giorni vagano per Roma sui mezzi pubblici, rischiando la vita e passando le notti in alcune chiese, finché non vengono ospitati per nove mesi in un convento di suore nel quartiere Monteverde. All’arrivo degli Americani a Roma , il 4 giugno del 1944, l’unico ricordo di Marco è una tavoletta di cioccolata, regalatagli da un soldato americano: questo gesto, che non dimenticherà mai, gli diede il senso della libertà. Tante le emozioni provate passeggiando per questi vicoli e visitando la mostra. Rportiamo le impressioni di una nostra compagna, Sofia Angeloni: “Capita in ogni strada di sentire un’emozione diversa, magari quella strada porta ad un posto felice o forse semplicemente verso la propria casa, ma quel giorno (il 5/10/2018) in quella piccolo strada, chiamata “vicolo della Reginella” che una volta portava al portone di una famiglia felice sentivo una sensazione strana come se le grida di quelle famiglie divise molti anni fa si sentissero ancora; come se tutte quelle lacrime che una volta facevano tanto male, si mescolassero all’acqua della piccola fontana delle tartarughe; come se in quel vicolo si fosse fermato il tempo e con lui anche le vite di persone che oggi vengono ricordate su una di quelle pietre di ottone, le “pietre d’inciampo”. Non so bene il perché, ma quel giorno il rumore dei miei passi non si fece sentire. Forse perché, in quel giorno, in quel tranquillo vicolo del ghetto di Roma, ricordo solo il silenzio profondo della memoria”. Finisce così il nostro viaggio nei ricordi attraverso la visita al ghetto e alla mostra di “Vite Spezzate”, di vite spezzate ce ne sono state tante e grazie a questa mostra siamo diventati anche noi dei testimoni, infatti abbiamo potuto riflettere molto sulla malvagità gratuita di alcune persone verso altri esseri umani”. Classe III H (tempo prolungato)

Redazione
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