mercoledì, Aprile 17, 2024

Quando le Foche Monache dimoravano sul mare di Cerveteri

Il bello di chi fa ricerche storiche mirate è che se trova (non sempre) quello che cerca, a volte si imbatte in piccole sorprese assolutamente inaspettate che provengono da situazioni estremamente marginali rispetto a ciò che si ha in obbiettivo primario, e questo è il caso di ciò che vengo a narrarvi amici lettori. Effettuando una ricerca storico-sociologica sui cambiamenti portati dalla costruzione della linea ferroviaria Roma – Civitavecchia (avvenuta fra il 1856 ed il 1859) su tutta la costa a nord della Capitale (-una landa desolata ed assolata contaminata dal “mostro fumante”- cfr. “Partiamo insieme,storia dei trasporti italiani” F.Olgiari e F.Sapi vol. XV Milano 1974,p.157 e ss.), ferrovia nata grazie all’iniziativa della “Società Generale delle Strade Ferrate Romane” ma voluta fortemente dal Pontefice di allora il famoso Pio IX tanto da venir chiamata la “Pio Centrale”, mi sono imbattuto in una particolare curiosità zoologica andando a sceverare, per ciò che mi interessava nello specifico, i vari testi di Antonio Nibby, Pompeo Moderni, Alphonse Balleydier, Camillo Ravioli, Giuseppe Tomassetti, Carlo Calisse, Giulio Francesci, Achille Apolloni, Giuseppe Lepri, Edoardo Martinori, Enrico Simberghi, Francesco Chigi, Cesare De Cupis, Giulio Sacchetti, Fulco Pratesi e Franco Tassi analizzando una serie di reiterate costumanze ed usanze della società dell’epoca nella zona del Sasso di Cerveteri ed a valle di esso. Ciò particolarmente in ambito venatorio e non solo, in quel di Montetosto (proprietà dei Rospigliosi Pallavicini), Casale Turbino e Furbara (tutto all’epoca, insieme al Sasso, in totale possedimento dei Marchesi Patrizi, una proprietà che il Nicolai quantizzò in una superficie totale di 2.850 ettari c.a. definendo il Sasso e dintorni “il Frascati della Maremma”. Si trattò di situazioni territoriali queste succitate che furono senz’altro implementate a livello umano, in alcuni periodi, dai cacciatori tramite l’utilizzo della suddetta ferrovia che andò, in tal modo, a far evitare gli spostamenti a cavallo, in diligenza, carrozza o calesse sulla Via Aurelia, brevi viaggi resi però anche piuttosto problematici ed estremamente pericolosi da una non trascurabile presenza di briganti, già incontrabili, spesso e volentieri, poco fuori le mura romane di Porta San Pancrazio al Gianicolo. Un pericolo costante ed immanente quello dei briganti che faceva però il paio con un altro grande pericolo, più subdolo e meno immediato, ma addirittura più tremendo e minante, rappresentato dalla millenaria tragedia della malaria che “impazzava” alla grande particolarmente nelle zone costiere decimando intere famiglie come accadde anche nel territorio di cui stiamo parlando. Tralasciamo tutta la parte storica ed archeologica (non da poco) concernente la zona suddetta dai tempi degli etruschi e degli antichi romani, fino a giungere ai passaggi del Corpo di Spedizione Francese che transitò sull’Aurelia (in zona Turbino) dal 26 aprile 1849 fino all’1 maggio per accamparsi poi a Palo, ciò antecedente, ma non di molto, alla costruzione della “Pio Centrale”. Esercito francese, al comando del generale Oudinot, che sbarcò il 25 a Civitavecchia per andare in soccorso del Papa (rifugiatosi a Gaeta), temporaneamente estromesso dal potere nella “Città Eterna” dai rivoluzionari garibaldini-mazziniani, rappresentati all’epoca nel provvisorio governo romano dal triunvirato composto da Armellini, Mazzini e Saffi. Entriamo invece a citare quale ampio contesto di cacciagione terrestre ed aerea a metà del Milleottocento era oggetto di grande “apprezzamento” venatorio (in particolare dalle ben scortate alte gerarchie vaticane che, per l’occasione, dimoravano o al castello di Santa Severa o al Sasso) e tanto per nominare alcuni di questi animali, di cui si usava fare tabula rasa (grazie anche ad ampi schieramenti di battitori e cani) eccone un breve, ma affatto esaustivo, elenco: Cervi, caprioli, cinghiali, volpi, lepri,istrici, tassi, beccaccini, croccoloni, alzavole, tortore insieme alle mitiche”otarde ed a quelle quaglie che furono oggetto di vere e proprie stragi, con un tristo record stabilito il 4 maggio 1862 quando sei cacciatori ne uccisero ben 599, quegli stessi, venuti in ferrovia da Roma, che, dal 25 aprile al 18 maggio, ne sterminarono addirittura 2.161 per la sicura gioia (a causa delle carogne delle prede non recuperate) del Capovaccaio, che è il più piccolo avvoltoio di origine africana, il quale ha “resistito” nella campagna romana fino agli anni Settanta del Novecento (sulle alture dei Monti della Tolfa) per poi scomparire a causa del completo deterioramento del suo habitat. Ma la vera sorpresa è quella di essere incorso nella notizia (cfr. G. Sacchetti in “La caccia alle quaglie sul litorale romano in circa 70 anni di cronache (1841-1909)”- Fratelli Palombi Editori Roma 1978) che agli Scoglietti di Furbara, fino ai primi anni del XX° secolo, stanziava un gruppo di foche monache! Quasi certamente l’ultimo nucleo che dimorò nell’Italia continentale (nelle isole scomparsero qualche decennio dopo, vedasi ad es. l’Isola del Giglio e dintorni). Attualmente d’inverno, kit surf permettendo, agli Scoglietti si incontra, a volte, una colonia dei, molto meno rari, cormorani alle prese con le loro “cacce” in immersione oppure ad asciugarsi ad ali aperte sugli stessi Scoglietti. Speriamo non ci abbandonino pure loro, magari per scarsità di pesce, come fecero, a suo tempo, le suddette piccole, deliziose, delicate e timidissime foche monache che migrarono altrove a causa, in questo caso, della avanzante antropizzazione locale.

Arnaldo Gioacchini

Membro del Comitato Tecnico Scientifico

dell’Associazione Beni Italiani

Patrimonio Mondiale UNESCO

Redazione
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