giovedì, Marzo 28, 2024

Terrorismo, Aldo Moro fu ucciso con 12 proiettili calibro 7,65

Secondo i risultati degli accertamenti del Ris, disposti dalla Commissione Moro 2, “contrariamente a quanto riportato in atti”, e contenuti nel libro ‘Moro, il caso non è chiuso’ scritto a quattro mani da Giuseppe Fioroni, già presidente della Commissione, e dalla giornalista Maria Antonietta Calabrò, “è stato colpito da dodici proiettili e non undici: otto calibro 7,65 estratti dal cadavere durante l’autopsia; due calibro 7,65, ritrovati tra la maglia intima e la camicia; due fuoriusciti dal corpo, perforando la giacca e la coperta”. “Dodici colpi dunque, e non undici come dichiarato dai brigatisti, visto che altrimenti esiste una assoluta discrepanza tra i fori di ingresso e i proiettili usciti o ritenuti – scrivono Fioroni e Calabrò -. Se ne deduce che il dodicesimo colpo potrebbe trovarsi ancora nel corpo di Moro. Lo si sarebbe potuto accertare subito, semplicemente con un esame radiografico che al tempo del delitto fu realizzato, ma che – non si sa perché – non risulta più agli atti”. “I brigatisti hanno sempre affermato che Moro morì sul colpo. Questo però non è assolutamente vero” scrivono Fioroni e Calabrò. Gli autori, nel capitolo dall’eloquente titolo ‘La lenta agonia’, raccontano: “Sul bavero sinistro della giacca di Moro il Ris (il Reparto di Investigazioni Scientifiche) dei Carabinieri ha trovato una ‘particolarità’, ha detto il comandante, colonnello Luigi Ripani nella sua audizione del 30 settembre 2015: lì c’è tutt’oggi traccia di un rigurgito di saliva, che la vittima espettora ancora vivo”. “Secondo l’autopsia eseguita il 9 maggio 1978, e basata essenzialmente sul parametro del ‘rigor mortis’, Moro è morto almeno quindici minuti dopo che gli hanno sparato. Ma il Ris, a seguito dei suoi ulteriori approfondimenti, è giunto alla conclusione che la morte è sopraggiunta sicuramente dopo una agonia molto lenta. Alle 19 di sera del 9 maggio quando inizia l’autopsia il rigor mortis non è ancora completo”. Secondo Fioroni e Calabrò, “la narrativa della morte sul colpo è servita a celare la verità su come sono andati realmente i fatti”. In particolare, “Moro non è disteso nel cofano quando inizia a essere colpito, perché – è un fatto certo – i colpi arrivano non dall’alto verso il basso, come sarebbe avvenuto in quel caso, ma al contrario dal basso verso l’alto. Tanto da far pensare che l’esecuzione possa addirittura essere cominciata quando lui era in piedi”. “Un’esecuzione barbara e imprecisa che contrasta con ‘la geometrica potenza’ dispiegata al momento del rapimento in via Fani, nel corso del quale Moro risulta praticamente illeso, dopo una sparatoria in cui sono stati esplosi 93 colpi. Un’altra, insomma, è la mano che uccide”, secondo gli autori. La ricostruzione dell’omicidio Moro, spiegano Fioroni e Calabrò, si è basata essenzialmente sulle dichiarazioni che furono rese tra il 1993 e il 1996 in sede giudiziaria da Anna Laura Braghetti e Germano Maccari: sintetizzando molto, secondo la ricostruzione fornita dai brigatisti Moretti e Maccari sarebbero stati gli unici a partecipare direttamente all’esecuzione, mentre la Braghetti faceva da ‘palo’ e Gallinari sarebbe invece rimasto nel covo-prigione. Moro sarebbe stato fatto distendere nel portabagagli della Renault 4 e Moretti avrebbe sparato dapprima con la pistola Walther, che però si sarebbe inceppata. Allora Maccari gli avrebbe passato la mitraglietta Skorpion con la quale sarebbero stati sparati gli altri colpi. Se le cose fossero andate così, solo Moretti avrebbe sparato. Allo scopo di chiarire la dinamica dell’assassinio di Moro, la Commissione Moro 2 ha delegato una serie di attività tecniche al Ris dei Carabinieri di Roma. Sulla base delle attività compiute dal Ris, l’ipotesi ritenuta scientificamente più probabile, riferiscono Fioroni e Calabrò, è che in un primo momento la vittima sia stata colpita anteriormente al torace sinistro da almeno tre colpi sparati con la mitraglietta Skorpion. Non si può tuttavia escludere che la vittima fosse seduta con il busto eretto in qualsiasi altro ambiente, compreso il sedile posteriore dell’auto. E – come ipotesi ‘in maniera residuale’ – che fosse in piedi. Il denaro necessario per pagare il riscatto ed ottenere, così, dai brigatisti rossi, la liberazione di Aldo Moro, fu fornito al Vaticano da un uomo d’affari israeliano di origini francesi Shmuel ‘Sammy’ Flatto-Sharon, che all’epoca del sequestro era membro della Knesset, il Parlamento israeliano. Fioroni – che sul caso Moro, ma anche su altre vicende italiane come la strage di Bologna, ritiene vi sia stata una sorta di “narrativa, frutto di un compromesso, sulla verità dei fatti” – svela nel suo libro diversi episodi inediti riconsegnando al Paese una lettura molto differente sugli anni di piombo e sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia, rispetto a quanto è stato raccontato fino ad oggi. “Si è vociferato per anni che papa Paolo VI (il Papa amico di Moro, ndr) aveva tentato in ogni modo di salvare lo statista Dc anche pagando un’ingente somma alle Brigate Rosse. Si è parlato di una cifra pari a 50 miliardi di vecchie lire messa a disposizione dallo Ior. Invece non fu così”, svelano Fioroni e Calabrò sollevando il sipario su particolari tutt’altro che marginali. A fare luce sulla vicenda, raccontandone i veri particolari, è stato il 4 dicembre 2017, di fronte alla Commissione Moro2, “monsignor Fabio Fabbri, che fino al 1999 è stato il vice ispettore dei cappellani delle carceri italiane, braccio destro dell’uomo che per il Vaticano e il Papa gestì le trattative con le Brigate Rosse, cioè il capo dei cappellani delle carceri don Cesare Curioni (deceduto nel 1996)”. “I soldi – ha detto Fabbri testimoniando davanti alla Commissione Moro 2 – recavano la fascetta di una banca estera, precisamente israeliana, di Tel Aviv”. “Del resto io conosco bene i caratteri ebraici”, ha aggiunto il monsignore addentrandosi nei dettagli: “Il denaro era in una sala della residenza di Castel Gandolfo, ricordo sotto una coperta di ciniglia azzurra, e mi furono mostrati direttamente dal Santo Padre, era una bella montagnetta alta almeno mezzo metro. Questa somma a quanto mi riferì don Curioni fu ottenuta grazie all’impegno personale di un imprenditore israeliano che si occupava di pelletteria e di scarpe”. La Commissione Moro 2 guidata da Fioroni accerterà, appunto che, effettivamente, “chi mise a disposizione del Papa e della Santa Sede la somma del riscatto per ottenere la salvezza di Moro, era un uomo d’affari israeliano di origini francesi Shmuel ‘Sammy’ Flatto-Sharon”, un personaggio “che all’epoca del sequestro era membro della Knesset”, il Parlamento israeliano dove egli “rimase parlamentare fino al 1981”. “Richiesto di confermare l’identità dell’uomo, dopo i riscontri ottenuti indipendentemente dall’organismo parlamentare, Fabbri lo ha fatto”, ricorda Fioroni: “Visto che mi viene fatto il nome di Flatto-Sharon posso dire che il suo nome mi suona in relazione a questa vicenda. Non ho la minima idea di dove sia finito quel denaro dopo il fallimento della trattativa. Lo vidi comunque due o tre giorni prima della morte dell’onorevole Moro”.
Redazione
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