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“Carta vetrata”/ Sugo

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di Stefania Origlia

Al terzo richiamo, finalmente, sono tutti seduti . “Ma quante volte vi devo chiamare? Mi annoio da sola, a sentirmi.” “E non chiamare, allora!” risponde sfacciata la biondina che mi guarda da sinistra. Sorride e si copre gli occhi. Mi viene da ridere ma devo fare la parte. “Mettiti seduta composta, zingara!” le dico a brutto muso e le sorrido mentre cerco di pizzicarle quel viso perfetto, una miniatura in ceramica. Il padre ci guarda “Adesso mangiamo tranquilli, però!” Mio figlio richiama la mia attenzione, lo guardo, lui mi bacia, lo ribacio. L’altro mi guarda, gli faccio piedino da sotto il tavolo e lui scoppia a ridere.

I rituali teneri e molesti sono la parte preferita della mia giornata. “Ti piace il sugo? L’ho fatto andare a fuoco lentissimo.” “Sì, è buono.” Sono quasi 20 anni che preparo sughi, torte di mele e cheesecake alla fragola. Sono piuttosto brava anche nei secondi di carne. La preparazione del petto di pollo all’arancia è una delle mie punte di diamante ma mio figlio, quello grande, letteralmente impazzisce per il mio coniglio alla cacciatora. In effetti lì non temo antagoniste. E senza alcun motivo, mentre servo la mia ciurma, mi viene in mente l’altro. La prima volta che lo vidi, mi offrì da bere. Due chiacchiere su Wenders o un altro di quei registi che quando li nomini, ti regalano immediatamente una verniciata di intellettualismo, e poi un calice di rosso. Tutto già visto. Tutto già fatto. Quasi le stesse identiche parole, ripetute per l’ennesima volta. Le telefonate silenziate, i messaggi in codice, gli appuntamenti saltati all’ultimo momento, per la febbre improvvisa di tua figlia, per una riunione dell’utima ora, il colloquio con i professori. Una di quelle cose che già sai come va a finire. Puoi stare lì a mettere il cronometro per verificare una volta di più, in che momento preciso arriverà una litigata, una rappacificazione, il silenzio offeso, la dichiarazione d’amore.

La fine è così chiara che la vedi ancor prima dell’inizio. La potenza di queste situazioni così “elettriche” è data dal fatto che è a tempo. Finito il periodo “Cenerentola”, dove ognuno di quelli che ti si accostano, ti sembrano una sorta di Goffredo che pianta il vessillo nella Gerusalemme liberata, sopraggiunge un certo distacco che è molto più piacevole e liberatorio, ti dà respiro, non ha urgenza e ti lascia sempre un sapore buono e un sorriso accennato, ogni volta che c’è un richiamo, una richiesta, o un significativo corteggiamento, degno di quel nome. Lui passa il pane nel piatto, il sugo gli è piaciuto più di quanto dice. È ancora un uomo piuttosto bello. Le spalle ampie, i muscoli definiti ma naturali, non frequenta palestre. È dimagrito sempre di più da quando stiamo insieme. Tante volte ho fatto questo pensiero, l’unico uomo dimagrito dopo il matrimonio. In parte devo averlo anche io inibito in qualche modo, io sono cambiata, lui no. Mi fa piacere cucinare e vedere che mangia con gusto ma non è più amore, credo. Oppure non lo so più riconoscere l’amore. Forse l’ho ricevuto per davvero, l’amore, quindi mi risulta difficile notarlo. So soltanto che quando non ci ringhiamo contro è piacevole stare tutti insieme. Ma non desidero fare più niente con lui. Non ho voglia di viaggiare o di cercare una casa in campagna o di comprare i tappeti della cucina. Solo nel mondo dei nostri bambini mi piace stargli vicino, decidere insieme, vederlo che sorride mentre quelle tre scimmie saltellano o dicono stupidaggini.

Finito quei momenti vorrei chiudermi in una stanza. Da sola. Parlare di altro con altri. E gli altri sono sempre tanti e tutti disponibili. Una bella giostra. Se qualcuno manca all’appello, c’è sempre qualcuno che può sostituirlo egregiamente. Uno scambio di lusinghe, di rimandi, di appuntamenti spostati sempre a “più in là”. Parole, tante, e qualche audace colpo di coda. Poi è arrivato lui con il calice, Wenders e “prendi qualcos’altro?”. Dovrei prendere te, a questo punto, dice la regola. E ci siamo presi infatti, più volte, a denti stretti, a mani che stringevano il collo, mani che tiravano, afferravano, che fermavano sulle labbra le parole indecenti. E promesse gridate nei momenti in cui non bisognerebbe fare promesse. E tempo graffiato via, anche se non c’era più tempo da graffiare. Tornavo a casa con una certa pace, dentro. Strano a dirsi. Guardavo lui che spadellava e i bambini intorno. Tutto completamente tranquillo, normale. Ero così placida che più volte mi sono morsa la lingua per non raccontare a cena che avevo conosciuto uno che mi aveva parlato di Wenders. Era incredibile, anche per me, constatare che, allo stesso tempo, ero sia lì con lui e la frittata di pasta, che con l’altro, ancora umido sul letto, la sua mano sulla mia coscia. Non provavo vergogna, né dispiacere, né alcun tipo di pentimento. Non avevo paura ma non ero neanche felice. Placida. La mia stanza segreta era chiusa. La luce spenta. I miei libri sul tavolo.

Qualcuno in penombra restava lì dentro ma uscivo senza fretta da lì e senza fretta entravo nella casa accesa, sul balcone, le rose, il basilico, “non annaffiare adesso che cola giù tutta l’acqua e poi chi la sente la vicina?”. Tante volte avrei voluto parlarne con qualcuno ma, che senso ha? Certe cose tutti le capiscono basta che non si dicano. Tutti le accettano. Tutti sanno come definire queste cose. Io non ho questa supponenza. Non lo so cosa è tutto questo. Solo che certe cose stanno prendendo corpo, indipendente da me. Sì muovono in completa autonomia e non posso fare altro che restare a guardare. Ho smesso anche di pensare a quanto sono disdicevole. A che serve? Non sposta nulla. Anche autocelebrarmi è completamente inutile. Ma oggi qualcuno sta guardando davvero nella mia direzione. Non ha solo poggiato lo sguardo, prima di spostarsi altrove. Lo tiene su di me e non ha intenzione di mollare la presa. Il tempo è scaduto, il cronometro sta segnando il tempo della fine, eppure non finisce. Sembra che lui abbia capito qualcosa che evidentemente a me ancora sfugge. Lascerò a lui l’intuizione. Il mio moto perpetuo dovrà trovare un posto dove fermarsi, prima o poi. Perché è così che succede. Solo questo è il modo. Qualcuno dice “fermati” e tu lo fai.

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