Quando il Covid iniziò a circolare in Italia il professor Massimo Ciccozzi, direttore dell’unità epidemiologica all’Università Campus Biomedico di Roma, per far capire come il virus entrasse nelle nostre cellule disse “è una chiave che ha trovato il giusto buco della serratuta per aprirsi la strada”. E oggi da Cambridge, in uno studio pubblicato su Nature, arriva la notizia di un farmaco che “sbarra la strada, chiude la porta, al virus agendo sui recettori presenti sulle cellule umane”. Chi parla a Rainews.it è Teresa Brevini, giovane dottoranda italiana, 28 anni, in medicina traslazionale, che ha fa parte del team del dottor Fotios Sampaziotis, ricercatore al Wellcome-MRC Cambridge Stem Cell Institute dell’Università di Cambridge e primario di epatologia all’Addenbrooke’s hospital Cambridge, che ha guidato la ricerca. La ricerca è inspirata da un cambio di prospettiva nella lotta al virus: non un attacco diretto allo stesso ma far si che non possa entrare nelle nostre cellule. E tutto questo usando una medicina utilizzata per un preciso disturbo del fegato. Qual è la novità? Non più rincorrere il virus e le sue varianti ma disinnescare il meccanismo. Sampaziotis dice “i vaccini hanno cambiato il corso della pandemia Covid, addestrando il sistema immunitario delle persone a riconoscere ed eliminare il virus della Sars-CoV-2”, ma “non sono sempre efficaci nei pazienti con un sistema immunitario debole o contro alcune varianti del virus. Inoltre, nonostante gli sforzi internazionali, non tutti hanno accesso alla vaccinazione, a causa del costo che comporta e delle disparità nella disponibilità del vaccino”. Questa ricerca è anche una “sfida per l’utilizzo di farmaci largamente accessibili” e questo però avendo chiare due condizioni: per aiutare le persone con un sistema immunitario debole, questi farmaci non devono necessitare di un sistema immunitario ben funzionante, e per evitare che il virus possa sfuggire al trattamento mutando, non dovrebbero agire su di esso. Il farmaco usato nella ricerca, dice Teresa Brevini, porta il nome di Udca (Acido ursodesossicolico) utilizzato per il trattamento di calcoli alle colecisti e sabbia biliare. In pratica, il farmaco Udca sarebbe in grado di silenziare i recettori del virus nel nostro organismo, limitandone molto la diffusione. Il farmaco contiene una molecola chiamata FXR, che è presente in grandi quantità nel dotto biliare, e regola direttamente la “porta” virale ACE2, utilizzata dal virus, aprendola e chiudendola efficacemente. E’ stato testato contro il Covid su mini-organi cresciuti in laboratorio (organoidi), su criceti, su polmoni umani e su alcuni volontari. Una coppia di polmoni è stata esposta al virus e solo a uno di essi è stato somministrato il farmaco: questo non si è infettato, mentre l’altro sì. “Utilizzando quasi tutti gli approcci a nostra disposizione – sottolinea Teresa Brevini – abbiamo dimostrato che un farmaco esistente chiude la porta al virus”. E evidenzia: “I nostri risultati suggeriscono che l’Udca potrebbe avere un ruolo importante nella gestione della Covid. È importante sottolineare che, ove possibile, proponiamo che l’Udca venga utilizzato insieme alla vaccinazione, piuttosto che sostituirla”. Concludendo: “L’ovvio passo successivo è quello di condurre ampi studi randomizzati e controllati per valutarne l’efficacia in clinica”. Altro dato importante è che “questo farmaco costa poco, può essere prodotto in grandi quantità velocemente e facilmente conservato o spedito. Il che lo rende facile da distribuire rapidamente durante le epidemie. Siamo ottimisti sul fatto che questo farmaco possa diventare un’arma importante nella nostra lotta contro il Covid”. Il professor Ciccozzi ha commentato questa ricerca come “una grande possibilità anzi opportunità per combattere il virus e soprattutto è l’occasione di avere una soluzione per chi il vaccino non se lo può permettere. Il fatto anche che sia facilmente distribuibile è sicuramente un’arma in più per rendere la lotta al Covid veramente a livello globale”.