martedì, Marzo 19, 2024

“Una traversata nel deserto lunga sei anni”

Intervista esclusiva. Parla l’avvocato, ma anche l’uomo, impegnato per vincere una battaglia difficile e complicata

di Alberto Sava
Le porte delle celle di Regina Coeli e Rebibbia si sono chiuse alle spalle di Antonio Ciontoli, Maria Pezzillo e dei loro due figli Federico e Martina. Archiviato il patos delle aule del tribunale, per i componenti di questa famiglia sono iniziati gli anni rieducativi del carcere. Quattordici anni per Antonio, 9 anni e 4 mesi per Maria, Martina e Federico per meditare, riflettere e maturare l’assunzione delle responsabilità, singole e collettive, sul non aver fatto nulla per salvare Marco: così recita il dispositivo della sentenza. Il giallo di Marco Vannini morto a venti anni per un colpo di pistola ha una verità a due facce, quella dei fatti ancora avvolta nel mistero: come è morto Marco Vannini e perché? E la verità processuale, conclusasi con una sentenza unica che non si era mai vista prima a memoria d’uomo, una intera famiglia condannata per un delitto. Giustizia è fatta, la vittoria processuale porta la firma dell’avvocato Celestino Gnazi, il legale della famiglia Vannini. La mamma di Marco, Marina, uscendo dal Palazzaccio, di fronte ad una selva di microfoni, nel rispondere alla domanda dei giornalisti sulle persone che le sono state accanto da quella maledetta sera del 17 maggio 2015, ha parlato dei suoi avvocati Celestino Gnazi, Alessandro Gnazi, Mauro De Carolis ed Enza Intoccia, dichiarando: “Queste persone oltre ad essere state i nostri legali durante questi lunghi sei anni sono state parte della nostra famiglia e lo rimarranno per sempre. Fin da subito hanno sposato la nostra tesi e si sono battuti con tutte le loro forze per dare a Marco la giustizia che meritava. Non è stata per loro una battaglia semplice perché oltre alle difficoltà processuali hanno dovuto sopportare le nostre frustrazioni.  Oggi se Marco può riposare in pace è grazie a loro e al professor Coppi!”
Avvocato Gnazi, alla luce della prima sentenza della Cassazione, che aveva demolito il primo appello e tracciato un percorso preciso per il successivo, che aspettative riponeva in questo secondo pronunciamento della Suprema Corte?
“E’ verissimo (e credo che questo aspetto sia stato sottovalutato) che la sentenza emessa dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione aveva tracciato un percorso molto netto, quasi scrivendo la Sentenza dell’Appello Bis, che di suo, in ogni caso, ha offerto una rivisitazione del fatto ampia, scrupolosa ed inattaccabile. Certo, i processi (e soprattutto quelli di questa portata) finiscono solo con il passaggio in giudicato dell’ultima sentenza e lunedì la tensione era comunque altissima. In cuor mio, però, ero fiducioso. Un ribaltamento ulteriore mi sembrava impossibile. Poi ho avuto la percezione di una perfetta conoscenza degli atti di causa da parte del Presidente della Corte e della Procuratrice Generale e mi sono immediatamente tranquillizzato”.
Giustizia è stata fatta: è stato un processo complesso e complicato. Quando ha intuito che il percorso giudiziario aveva imboccato la strada giusta?
“E’ stata davvero dura. Come suol dirsi, abbiamo attraversato il deserto. Non posso dire che la Sentenza di Primo Grado avesse completamento disatteso le nostre aspettative, perché il riconoscimento dell’ipotesi di omicidio volontario (anche se, in quella fase, solo in capo ad Antonio Ciontoli) era, all’inizio, un’ipotesi tutt’altro che scontata. Questo, per amore di verità, occorre ricordarlo. La svolta, però, è arrivata con la prima Sentenza della Corte di Cassazione, dove, per la prima volta e con una forte emozione, è stato riconosciuto tutto quello che stavamo sostenendo con grande forza da quasi cinque anni”.
Quale è stato il momento più duro e difficile di questi sei lunghi anni?
“Indubbiamente il 29 gennaio 2019, giorno della sentenza resa nel primo giudizio di Appello, quando, durante la lettura del dispositivo, vi fu la ormai celebre prospettazione della “passeggiata a Perugia”. Per quel che conta, ritenevamo che, prima ancora delle non condivisibili affermazioni in diritto, i fatti fossero stati ricostruiti in modo illogico e contraddittorio, come poi ha affermato un anno dopo la Cassazione”.
Tenuto conto anche della confusione delle prime battute della vicenda e dell’atteggiamento granitico opposto dalla famiglia Ciontoli, sull’evento e sui mancati soccorsi, ha mai temuto veramente che Marco non potesse avere giustizia?
“Il timore c’è sempre stato, anche se non abbiamo mai, in nessun momento, perso la speranza. Ripeto, ora è facile dirlo e pensarlo, ma all’inizio tutto è stato una conquista faticosissima, a partire della formulazione da parte del PM di una imputazione di omicidio volontario e dalla decisione del GIP di disporre il Giudizio su quelle basi. Ora sembra tutto scontato, ma è stato esattamente il contrario. Va detto, peraltro, che le aspettative sono cresciute gradatamente nel corso del Giudizio di Primo Grado, man mano che si raccoglievano le prove”.
Sulla vicenda di Marco fino ad oggi i riflettori non si sono mai spenti. L’assurdità della morte di quel ragazzo è stata un lutto non solo per la comunità di Cerveteri, ma per tutta l’Italia. Tanto interesse e partecipazione sono stati anche la vostra forza?
“Siamo sempre stati grati di quell’interesse e di quella partecipazione: è stato importante per i genitori sapere di aver vicino così tante persone e così tanto affetto. Sono stati consapevoli di non essere mai soli in questa nostra battaglia per ottenere giustizia. E’ tuttavia necessario precisare che le sentenze di cui si parla non sono state scritte dai giornali o dalle televisioni, ma da una serie di Giudici straordinari”.
La famiglia Vannini ha sempre riposto in lei totale fiducia professionale ed umana, e lei è stato sempre ininterrottamente al loro fianco, cosa hanno rappresentato questi sei anni, come avvocato e come uomo?
“Tanto, sotto tutti gli aspetti. Ora che la vicenda processuale è finita, posso dire che un impegno professionale ed un coinvolgimento emotivo di questo genere non sono stati facili da sopportare. Ma la consapevolezza di aver operato bene e di aver dato un contributo per la giusta conclusione, consente di superare rapidamente tutto, anche qualche (metaforica) aggressione personale da parte di soggetti di vario genere. In ogni caso, non si può parlare di soddisfazione quando va in carcere una intera famiglia. Certamente sono sereno perché ho fatto il mio dovere e perché è stato riconosciuto che quanto abbiamo sempre sostenuto era vero”.
Avvocato Gnazi, con rispetto e delicatezza le chiedo: cosa vi siete detti lunedì sera con Marina e Valerio?
“Che avevamo fatto tutto il possibile per permettere a Marco di riposare in pace e che ci siamo riusciti”.
Redazione
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