venerdì, Marzo 29, 2024

Cinema, cento anni fa nasceva Vittorio Gassman: il più istrionico degli attori italiani

di Alessandro Ceccarelli
Il secolo scorso è stato caratterizzato da una serie di attori che hanno resto immortale il cinema italiano. Alberto Sordi per la sua straripante romanità, Ugo Tognazzi per il suo geniale trasformismo, Marcello Mastroianni per il suo incredibile fascino, Nino Manfredi per la sua straordinaria naturalezza. Insieme a questi immensi talenti c’è ovviamente anche Vittorio Gassman, il mattatore, forse il più istrionico di tutti. Da non dimenticare anche interpreti del calibro di Gian Maria Volontè e Giancarlo Giannini che poche settimane fa ha compiuto 80 anni. Parlare di Vittorio Gassman significa ripercorrere la storia del teatro, del cinema e della tv del XX secolo. La sua inconfondibile voce, la sua profonda impostazione recitativa, il suo rigore manialcale, il suo sguardo intenso e la sua figura imponente e carismatica. Partito dal teatro classico, grazie a Mario Monicelli e poi Dino Risi si è saputo trasformare in un attore di geniale talento comico. Ricordiamo almeno tre capolavori: “I solito ignoti”, “Il sorpasso”, “I Mostri”, La grande guerra” e “Brancaleone”. Tra il comico e il drammatico inoltre va citato “C’eravamo tanto amati”, sincero affresco storico dell’Italia girato insieme a Nino Manfredi, Stefania Sandrelli e Stefano Satta Flores. Sempre di Scola va ricordato “La famiglia” in cui Gassman giganteggia in un altro film che racconta la nostra storia dal Fascismo agli anni ’80. La carriera di Vittorio Gassman, ricca di luci, successo, donne, premi e stata caratterizzata anche da alcuni aspetti intimi, sofferti e molto dolorosi, come la depressione che lo ha devastato a più riprese negli ultimi vent’anni della sua straordinaria esistenza. L’attore e regista si spense a Roma il 29 giugno del 2000: non aveva ancora compiuto 78 anni.
Cento anni fa nasceva Vittorio Gassman. Mattatore dello spettacolo italiano (definizione guadagnata anche grazie al film omonimo che lo vide protagonista), ha caratterizzato tutta la stagione della gloriosa commedia all’italiana, ed è stato uno dei più importanti nomi del teatro classico italiano. Durante tutto l’anno le celebrazioni sono state numerose, culminate nella grande mostra all’auditorium di Roma e nell’intitolazione di Lungotevere intitolato, per lui, nato a Genova ma romano d’adozione. Perché Vittorio Gassman, pur non essendo romano sapeva esserlo più di tanti suoi concittadini, capace però di mimetizzarsi in ogni regione per la sua maniacale precisione nel ripetere tutte le inflessioni dialettali e regionali. Un attore a cui riusciva tutto e apparentemente senza sforzo. Una naturalezza apparente che nascondeva la fatica della perfezione, l’infaticabile ricerca del dettaglio. Con una presenza scenica del prim’attore sviluppata sin da giovane, con in mente il piglio della generazione di Renzo Ricci (padre della prima moglie di Vittorio), Gassman usa il corpo come strumento della sua arte. Prestante e bello, giovane cestista di belle speranze, viene rapito ben presto dal fascino del teatro, anche perché tra i compagni di corso all’Accademia d’arte drammatica mostra subito di aver quel quid in più. Debutta a Milano in piena guerra, nel 1943, con Alda Borelli nella “Nemica” di Niccodemi, ma è all’Eliseo di Roma, in compagnia di Tino Carraro ed Ernesto Calindri che si fa notare svariando con naturalezza dal repertorio classico a quello contemporaneo. I primi approcci con il grande schermo sono meno ricchi di soddisfazioni. I primi ruoli sono limitati e lo vedono costruirsi una certa fama da cattivo e seduttore pericoloso come in “Riso amaro” di Giuseppe De Santis nel 1949. A teatro invece, nel decennio successivo, affronta con grande successo la prima lettura di Shakespeare, autore che lo accompagnerà per tutta la carriera. Poi il cinema gli offre l’occasione di trovare anche un’altra strada. E lo fa nella persona di Mario Monicelli che lo chiama nel 1958 per “I soliti ignoti” (1958). Gassman indossa in quel momento una maschera comica che lo accompagnerà per anni. Diventa così uno dei “quattro colonnelli” della risata insieme ad Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Nino Manfredi. In questo percorso artistico lega il suo nome a quello di grandi registi, come Dino Risi, Luciano Salce, Luigi Zampa ed Ettore Scola, ma soprattutto Monicelli in testa. Se quest’ultimo modella su di lui il personaggio di Brancaleone, Risi gli offre lo spaccone disperato de “Il sorpasso”. Scola fu invece suo complice in tutto l’itinerario della maturità da “C’eravamo tanto amati” a “La famiglia”.
Fare la lista dei suoi capolavori è perfino imbarazzante da “La grande guerra” a “Il sorpasso”, da “I mostri” a “L’armata Brancaleone”, fino a “C’eravamo tanto amati”. Non mancano film drammatici come “Caro papà”, “Il deserto dei tartari”, “La terrazza” e soprattutto “Profumo di donna” che gli vale un applauso internazionale e la Palma d’oro a Cannes. E’ solo uno dei tanti riconoscimenti che teneva in casa come soprammobili occasionali, dai 9 David di Donatello ai Nastri d’argento, Grolle e Globi d’oro fino al Leone alla carriera della Mostra di Venezia che lo consacra nel 1996.
Accanto a una carriera professionale esuberante non si fatta meno notare la sua tempestosa vita sentimentale con tre mogli ufficiali (dopo Nora Ricci, l’americana Shelley Winters e Diletta d’Andrea), tre compagne amatissime (Juliette Mayniel, Anna Maria Ferrero, Annette Stroyberg), quattro figli da madri diverse: due di loro (Paola e Alessandro) lo hanno seguito nella passione per la recitazione.
Chiude la carriera là dove l’aveva iniziata, in palcoscenico, tra l’intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della “Divina Commedia” e lo spettacolo “Ulisse e la balena bianca”, una sorta di testamento artistico ed esistenziale. Sulla sua lapide viene scritto: “Non fu mai impallato”.
Redazione
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